Daniele Guelfi. E’ nato e vive a Pisa. Partecipa al Concorso 50&Più per la quinta volta; nel 2019 ha ricevuta la Menzione speciale della giuria per la prosa.
Pensava che la fontana, in quella modesta piazzetta, fosse incongruente. Grande, troppo grande, maestosa, si direbbe. E quei giochi d’acqua, i tritoni, le sirene. Che idea! A Roma, Milano, magari Napoli. Mica in un paesino come questo. Chi sarà stato l’esecutore? Un megalomane, di sicuro.
Forse nato qui. Ha fatto i quattrini e poi, per ingraziarsi i paesani, ha pensato bene di lasciar loro questa testimonianza. Chissà quanto gradita. Magari avrebbero preferito un asilo, un cinema, un bar. Di buono, queste panchine. Perlomeno.
Lo sguardo si spostò sulla destra, verso la chiesa parrocchiale. Sembrava il frontale di un capannone industriale, primi anni del novecento. Probabilmente i fedeli, per entrare, si mettevano la tuta. Un lieve sorriso, poi si diede del cretino per la battuta infelice. Concluse comunque che, in quanto a un luogo di culto, era proprio bruttino. Come il paese e come la gente del paese. Specie quel tizio che aveva conosciuto alla locanda. Era il padrone, o forse il gestore della locanda “Al buon riposo!”.
Dietro un paio di enormi baffi dal colore che cangiava col loro movimento, dal bianco delle punte al grigio della parte centrale, fino al giallo sporco, molto sporco a pensarci bene, del pelame intorno alla bocca. Grande fumatore di toscani, fino a bruciarsi le dita. Il pasto, discreto, talvolta buono.
Magari ho fatto bene a non avventurarmi in cucina.
Sulla sinistra verso il negozio di alimentari, lo sguardo era occupato da una figura seduta a un paio di metri da lui. Molto meglio del negozio a dire il vero.
Carnagione, di un bronzeo irreale un corpo da pubblicità due occhi da cerbiatta. E tutto il resto! Che ci fa un monumento del genere qui in questo paese? Come ci sarà arrivata? Per sbaglio di certo. Chissà se anche lei aspetta la corriera. Quasi quasi provo a chiederlo. Forse è meglio di no. Che diritto ho di rompere le scatole alla gente? Perché non penso ai fatti miei?.
“E’ passata la corriera?”.
Musica. La voce di lei era una vera musica. Lo colse all’improvviso, nelle sue titubanze, talché non fu capace di spiaccicare parola, per un buon paio di minuti.
“No, non credo. Io sono qui seduto da circa mezzora e non è ancora passata. Dovrebbe essere vicina”.
Fu preso dall’entusiasmo. Il solo pensiero di fare il viaggio accanto a tale creatura, gli fece scordare di colpo tutte le disavventure che l’avevano portato in quel recesso dimenticato da Dio.
“Perché parte?”.
Strana domanda, pensò. Di regola, per mera curiosità, o meglio, per stabilire un contatto, ancorché fugace e limitato al tempo del viaggio, si chiede quale sia la meta del viaggio, non il motivo. Una eventuale indagine sul motivo viene dopo, quando iniziano le confidenze. Se iniziano. Strana domanda davvero.
“E perché non dovrei partire?”.
Si congratulò con se stesso per la brillantezza della risposta. Perbacco, ora toccava a lei risolvere il problema. Cosa avrebbe detto? Se oltre alla esuberante bellezza dava prova anche di una buona dose di intelligenza, evento insolito per la comune credenza, aveva di fronte una rarità!
“Per lo stesso motivo che hai di restare”.
“Non capisco”.
“Resta, e capirai”.
La guardava perplesso, cercando di ricordare gli avvenimenti che l’avevano condotto fin lì. Quanto tempo era passato? Quanti giorni? O settimane? Si rendeva conto che per qualche oscuro motivo, aveva perso la cognizione del tempo. E non solo.
Fu risvegliato dallo strombettio della corriera. Ansimando, per lo strappo finale che conduceva alla piazza, annunciava il suo arrivo con quello strepito trionfante, quasi a festeggiare l’ennesima prova superata. Guadagnato il piano della piazza, fece il consueto giro intorno alla fontana, fino alla fermata davanti al bar.
Era consuetudine che, durante la sosta, l’autista ed il bigliettaio scendessero, sia per rinfrescarsi d’estate e per riscaldarsi d’inverno, quanto per caricare l’immancabile quantitativo di granaglie, sementi ed attrezzi per l’agricoltura da consegnare alla cooperativa, giù al piano.
Nel frattempo la corriera si riempiva di passeggeri, usciti da chissà dove. Si avvicinò allo sportello in attesa che scendessero quelli arrivati. Uno, ne scese solo uno. Lentamente, coprendosi gli occhi con una mano per adattarsi alla luce del sole ancora basso, fece il primo gradino e si arrestò.
Si fissarono, sorpresi. Come in uno specchio, invisibile, si guardavano increduli. Perfettamente uguali.
Il primo a parlare fu il nuovo arrivato.
“Mi chiamo Aristide. Aristide Coltelli”. Gli tese la mano. Una via di mezzo, fra l’aiuto per scendere ed il saluto.
“Piacere. Anch’io”.
“Sono figlio di Pilade. E di Corinna Salutini”.
“Anch’io”.
“Allora siamo fratelli. Fratelli gemelli”.
“Può darsi. Ma chi lo garantisce?”.
“Il fatto che siamo uguali. In tutto e per tutto”.
Il ragionamento sembrava talmente logico, addirittura elementare, da non aver bisogno di ulteriori spiegazioni. Aristide Coltelli, diciamo Primo, aprì le braccia per ricevere l’abbraccio del suo alter ego, e poco mancò che si lussasse entrambe le spalle.
Aristide Coltelli Secondo, disceso che fu dalla corriera, lo guardava sorridendo, per niente meravigliato di quel che stava accadendo.
“Mi sembri sorpreso, ed è giustificata la tua sorpresa. In realtà io non ho essenza corporea. Io sono il tuo pensiero, la tua fantasia, quella particolare essenza che vive e sopravvive, qualunque sia il destino, la fine del corpo materiale. In pratica, io sono la vita. La tua vita. Capisci?”.
“Per essere sincero, non capisco proprio. Da quanto mi dici, in altre parole, tu saresti la mia anima!”.
“Appunto! Mica è difficile. Ragiona. Se, all’apparenza, ti sono uguale in tutto e per tutto, ma, quando cerchi di abbracciarmi trovi il vuoto, ciò significa che non ho consistenza materiale. Giusto? Quindi non posso che essere un’idea, un pensiero, una volontà. Ecco, la giusta definizione: l’anima è la volontà. La volontà di vivere, di fare, di essere uomo. Quando anche una sola di queste cose viene a mancare, viene a mancare l’anima e, nella sua consistenza corporea, non ha più ragione di essere”.
“Quindi, dal momento che mi sono stancato di fare, è come se avessi perso l’anima!”.
“Vero. Cosa differisce un essere vivente da una cosa inanimata? Il pensare, che conduce al fare e che, in definitiva è l’essere. E’ la vita. E tu, un giorno hai deciso di non vivere più. Perché?”.
“Perché sono rimasto solo. Perché ho perduto anche l’ultimo motivo di interesse alla vita. Non ho più affetti, nessuno a cui parlare di me, delle mie paure, delle mie certezze, delle mie gioie o dei miei dolori. E queste non sono cose che si comprano! E quando ho visto passare questa corriera, con destinazione “Al buon riposo”, ho pensato che mi avrebbe condotto alla tranquillità. Quella perduta”
“E l’hai ritrovata?”.
“No. Non mi sembra”.
“E allora cosa hai deciso di fare?”.
“Ritorno da dove sono venuto”.
“Vorrai dire da dove sei fuggito. In pratica, è una resa”.
“No! Si. Mi dispiace ammetterlo, ma è una resa. Sono stanco. Non ho più voglia di combattere. Venendo qui speravo veramente di trovare quel buon riposo di cui avevo bisogno, dopo una vita travagliata. Sono deluso, l’ammetto”.
“Con sincerità, dimmi: cosa intendi per un buon riposo? Starsene tutto il giorno a girare i pollici? Passare ore a rimpinzarsi di cibo? Trascinarti dietro una sottana con la bava alla bocca? Se credi che questo possa essere un buon riposo, basta chiedere. Qui abbiamo tutto, volendo. Sappi, però, che una volta fatta la scelta non si può tornare indietro. A quel punto devi accettare tutto il buono e tutto il cattivo, di quella vita. Ti va?”.
“Fammici pensare”.
“Non puoi”.
“E perché?”.
“Semplice. Perché sono io il tuo pensiero. Te l’ho già detto. Sono la tua anima, la tua essenza. Ed io non accetto di vivere in quel modo. E’ un tipo di vita, se vogliamo chiamarla così, che accomuna i poveri in spirito”.
“I poveri di spirito, vorrai dire”.
“No, mio caro. I poveri in spirito. E non è una sottigliezza!”.
“Mi sembra di capire che il vero vivere non sia l’esistere, bensì l’essere”.
“E bravo il mio Aristide! Ci sei arrivato!”.
“Grazie a te, Aristide!”.
“No, Aristide. Grazie alla tua vita. Alle tue peripezie. Alle prove che hai affrontato e superato. Agli affetti che hai avuto e a quelli che avresti voluto avere. Alle gioie provate e a quelle che ora ti mancano. Ai dolori vissuti e a quelli che ancora vorresti. Perché tutto è vita, Aristide. E se manterrai nel pensiero tutto questo, vivrai il tuo giusto e buon riposo, Aristide. Ed io con te”.
Si voltò all’indietro, per vedere se scendesse qualcun altro, ma non vide nessuno. Nemmeno la corriera. Nemmeno la fontana. Neppure la piazza e quella bella ragazza.
Vide lo specchio, l’armadio, le foto dei suoi cari, il filo di luce che fendeva il pulviscolo della stanza, il libro sul comodino, la giacca sulla sedia
Vide la vita. La sua vita. E non fu più stanco.