Alberto Guaresi.
Ha iniziato a lavorare molto presto nel laboratorio artigianale del padre, diventando poi presidente della Guaresi Spa che produce macchine agricole. Autodidatta, partecipa al Concorso 50&Più per la decima volta. Vive a Pilastri (Fe).
Edda non era il tipo di donna appariscente che affida il suo fascino all’immagine, al contrario, pareva volesse lei stessa nascondersi, passare inosservata.
Questo suo intento aveva successo, quando i contatti, con il prossimo erano di tipo superficiale, limitati al saluto, a poche parole di circostanza.
Quando invece il suo interlocutore si tratteneva con lei più del solito, la banalità si dissolveva rapidamente sostituita da un’attrazione che si ingigantiva con il prolungarsi della conversazione.
Il gradevole mutamento era indotto dalle qualità spontanee degli atteggiamenti, dalla dolcezza della sua voce, dalla prontezza del suo pensiero che si traduceva in linguaggio scorrevole senza esitazioni in qualsiasi argomento, come se tutto fosse già pronto in lei per essere esibito.
A queste doti naturali lei aggiungeva un sorriso lieve, appena abbozzato che indicava come ogni suo gesto fosse preventivamente misurato e, se rivolto ad un uomo, aveva il potere di suscitare in lui una sensazione mista di ammirazione e desiderio di beneficiarne ancora.
Nonostante queste eccezionali qualità, Edda stava per raggiungere i trentacinque anni senza avere incontrato l’uomo a cui legare il suo destino. Nessuno tra quanti l’avevano avvicinata aveva superato l’intransigente esame a cui era stato sottoposto, in ognuno di loro lei aveva individuata una negatività inaccettabile.
Queste perduranti situazioni, l’avevano indotta alla rassegnazione, si sentiva destinata a rimanere “zitella” e, di riflesso, concentrava la sua esistenza nell’esplicazione del suo lavoro di archeologa presso un museo emiliano. In esso trovava appagamento al suo bisogno di alimentare l’immaginazione aggiungendo alla concretezza di ogni reperto il contesto temporale a cui esso era appartenuto.
Ma in Edda esistevano anche altri bisogni, i bisogni che la natura impone ad ogni donna al fine di ricreare la vita e che spesso sono travisati, usati allo scopo di ricavarne piacere e null’altro. Ciclicamente lei si sentiva sottoposta a questi assalti incontenibili che si manifestavano improvvisamente, impadronendosi della sua volontà, volgendola verso la ricerca di ciò che esigeva il suo organismo.
In quelle circostanze, la ragione soccombeva all’istinto che, divenuto padrone incontrastato, la induceva a comporre il numero telefonico di Marisa, una ex compagna di liceo trasferitasi da tempo a Bologna e divenuta tenutaria di una casa d’appuntamento.
Ad essa, annunciava il suo arrivo nel tardo pomeriggio e, come solito, la ripartenza per il giorno successivo.
A Marisa queste improvvisate erano gradite, sapeva che Edda non accettava compensi per le sue prestazioni, per cui l’intero importo pagato dai clienti lo tratteneva per sé, anziché dividerlo come faceva normalmente con le altre ragazze. L’unico cruccio di Marisa era la brevità del suo soggiorno, che mai si prolungava oltre il tempo di una nottata indispensabile ad Edda per appagarne i bisogni fisici e psicologici.
Ella viveva quei momenti come fosse un gioco, una pausa di ricreazione dopo un periodo di costrizioni. Il piacere di essere ammirata, desiderata più di ogni altra donna, ingigantiva il suo ego inebriandolo del sublime potere della seduzione femminile.
Come ogni altro evento che si sussegue, anche questo modo di vivere era divenuto per lei normale, erano anni che lo faceva. Lo avrebbe certo fatto ancora, ma una sera, alla terza volta che la porta della sua stanza si aprì, comparve Alessio, un suo vicino di casa che, avendoci provato, era stato respinto sdegnosamente.
In quel frangente Edda restò immobile per un attimo, poi, istintivamente ricoprì le sue nudità con un asciugamani e sconvolta si rinchiuse in bagno.
Alessio non fu meno sorpreso, arretrò e richiuse la porta, si scusò con Marisa adducendo un’improvvisa indisposizione e uscì di casa.
Edda lasciò l’appartamento di via Zanardi il mattino dopo. Era costernata, risalì sulla sua “Panda” e si avviò verso Ferrara, ma questa volta non percorse l’autostrada, scelse la strada statale. Nella sua mente era in corso un conflitto tra le due personalità che convivevano in lei.
Era come se fossero due donne imbevute d’odio l’una verso l’altra, litigavano insultandosi reciprocamente, cercando di sopraffarsi.
La personalità convenzionale accusava l’altra di averle distrutto la rispettabilità, quella spontanea si difendeva accusando l’avversaria di prevaricarla, di averla costretta alla clausura impedendole di esprimere la sua femminilità, costringendola all’ipocrisia.
In quella condizione conflittuale, non si sa quale delle due avesse la responsabilità nella guida dell’auto che procedeva sempre più velocemente, e, giunta a pochi metri da un autocarro che avanzava in senso opposto, sterzò a sinistra impattandolo frontalmente.
Chi aveva voluto l’incidente?
Quale individualità si era imposta in quell’ultimo atto?
Fu, forse, la componente convenzionale che, sconvolta dal pensiero di perdere la propria rispettabilità, per sottrarsi alla vergogna, cercò il suicidio?
O invece era prevalso il potere dell’istinto, tante volte incompreso e umiliato, che in quel frangente colse l’occasione per compiere la sua vendetta, cercando la morte per sé, pur di annientare la sua odiata convivente?