Elisabetta Maria Antonella Greco. Laureata in economia, ha lavorato alla Pirelli dove ha partecipato per tanti anni alla community di lettura creata al suo interno. Nel 2018 ha iniziato a frequentare corsi di scrittura creativa e a scrivere racconti. Nel 2021 ha vinto il primo premio a un concorso organizzato dall’Anla di Firenze. Attualmente insegna scrittura creativa all’Università della terza età di Muggiò. Partecipa al Concorso 50&Più per la terza volta; nel 2022 ha vinto la Farfalla d’oro per la prosa. Vive a Monza (Mb).
La prima volta che vidi Gloria fu al funerale della zia Marisa, la sorella minore della mamma.
Avevo già sentito parlare di lei, me l’ero immaginata diversa, più brutta. Me la presentò mia cugina Luisa alla fine della funzione, sul sagrato di quella chiesa di periferia, costruita cinquanta anni prima come un fungo in mezzo ai grattacieli del Gallaratese, e ora triste come un vecchio capannone industriale in disuso.
Era vestita in modo appariscente: la camicetta di un blu elettrico, scollata, infilata in una gonnellina a pieghe a fiori, troppo corta per l’occasione. E quei tacchi a spillo vertiginosi! Come riuscisse a non inciampare su quei sampietrini malmessi, per me era un mistero.
Non era per niente brutta, anzi: aveva una pelle chiarissima, un caschetto di capelli color miele e grandi occhi azzurri, illuminati da un ombretto opalescente.
Luisa mi disse tutta eccitata che non vedeva l’ora di farmela conoscere e che finalmente era arrivata l’occasione! Mentre parlava, continuava a sorridere, fiera, quasi mi presentasse il suo figlio più bello. Poiché si trattava di un funerale, pensai che tutta quell’allegria, e ancor di più le sue parole, fossero di cattivo gusto, ma non replicai. “Piacere, Antonella”, dissi invece, allungando la mano, un po’ freddamente, verso la sconosciuta, soffermandomi qualche secondo di troppo a osservare lo smalto rosso vivo sulle unghie. “Gloria”, disse lei, con un gran sorriso sul volto, stringendo vigorosamente la mia mano. Infine, mi voltai a baciare il viso magro e un po’ tirato della cugina.
“Antonella! Quanto tempo che non ci vediamo … non sei neppure venuta al mio matrimonio, quindi saranno almeno vent’anni!”, disse Luisa, abbracciandomi con calore.
“Così tanti?” risposi, ma sapevo che aveva ragione, ed era solo colpa mia.
“E doveva essere proprio un fatto così triste a farci rivedere! Ma la prossima volta deve essere per una festa!”
“Certo, magari si sposa mio nipote, non si sa mai che si decida …”, dissi, sciogliendomi dall’abbraccio, a disagio.
E invece no, la volta dopo fu di nuovo per un funerale, per la morte di mia madre, nemmeno un anno dopo.
In chiesa presero posto, sedute vicine, in mezzo ai parenti più stretti: non le notai, ero troppo confusa dall’angoscia. In compenso le notarono alcune mie amiche, e non mancarono di riferirmelo.
Dopo il funerale ci vennero a trovare nell’appartamento dei miei, dove con i miei fratelli e mio padre smaltivo quella stanchezza che sempre accompagna il funerale di un tuo caro. Non erano state invitate, ma nessuno ci fece veramente caso quando suonarono al campanello. Mia cugina si mise a parlare piano con mia sorella, con gli occhi lucidi. Gloria dal canto suo non sembrava interessata ai nostri discorsi, né ai singhiozzi intermittenti di mio padre. Il nostro dolore pareva non toccarla, quasi che ne avesse già sopportato a sufficienza, e non potesse rimanere coinvolta in quello altrui. Quanto a noi, nessuno aveva la forza, e la voglia, di rivolgerle la parola.
Dalla poltrona, dove ero sprofondata in un anestetizzante stato di tranche, cominciai a seguirla con gli occhi. Si muoveva sciolta, saltando da una parte all’altra del salone, con le pieghe della gonna che si muovevano a ogni suo passo. Pareva a una festa di compleanno. Osservava curiosa i quadri, i soprammobili e le foto di famiglia disseminate un po’ ovunque. Sembrava affascinata dai libri, dai mille e più volumi della grande libreria a parete.
A un tratto, con naturalezza, si accovacciò sulle gambe e rimase a lungo in bilico sui tacchi, con le ginocchia nude sul freddo marmo, intenta a scrutare i volumi dello scaffale più in basso. Pensai che non sarei mai riuscita a mantenere per tanto tempo quella scomoda posizione, neanche se avessi passato la vita in palestra.
Dopo più di un’ora ci salutarono per ritornare alla loro casa sulla costa toscana, assecondando così finalmente il nostro bisogno di restare soli, il nostro desiderio d’intimità familiare. Non erano stati giorni facili, la mamma ci aveva lasciati in dieci minuti, senza un motivo apparente, senza un ultimo saluto. Uscite loro, cominciammo a interrogarci su quanto era successo, a chiederci se avremmo potuto fare di più.
Passarono diversi mesi, senza che mi venisse mai in mente di contattarle. La loro vita, la loro storia, semplicemente non mi riguardavano. Mia sorella invece le incrociava nella vecchia casa dei nonni, abitata oramai solo dai vecchi zii, in quel paesetto di poche anime in Lunigiana, dove si rifugiava ogni tanto per alleviare lo stress che la divorava. Mi mandava fotografie, dove apparivano tutte tre sorridenti, appoggiate al muretto di pietra che conoscevo tanto bene. Era affezionata a Gloria, non riusciva a incolparla di nulla. Di entrambe tesseva le doti d’infermiere e mi raccontava di come si prodigassero per gli zii malandati, senza mai lamentarsi, sacrificando per loro il giorno di riposo settimanale.
Dopo questi racconti immaginavo queste due donne, così diverse, salire insieme dalla costa al paesino, guidando una volta una, una volta l’altra, entrambe esperte su quelle strade strette costeggiate dai boschi di castagni dell’Appennino. Le vedevo indaffarate nella vecchia casa sul colle, oppure me le figuravo con addosso i camici, lavorare fianco a fianco in ospedale, sorridendo ai malati, mentre fingevano di non sentire i pettegolezzi dietro di loro.
Fu una mattina di febbraio che ricevetti un messaggio da Luisa: si sarebbero prese qualche giorno di vacanza e desideravano fare per un po’ le turiste a Milano. Volevano approfittare del viaggio per vedere me, per parlare un poco con me. Pensai subito a inventare una scusa, e invece la sera stessa risposi con un messaggio che le avrei viste con molto piacere. Dopo tutto, ero curiosa. Non me la sentii di telefonare, ci sarebbe stato tutto il tempo per parlare, per spiegare.
Ci vedemmo a Milano in una splendida giornata di fine febbraio. Arrivai all’appuntamento in ritardo, nervosa, cercando di non darlo a vedere. Mi aspettavano da mezz’ora in piazza Gae Aulenti, vicino alla fontana. Riconobbi subito Gloria, sebbene i suoi occhi fossero coperti da vistosi occhiali a farfalla, e poi dietro di lei scorsi Luisa. Non potevano essere più diverse: una minuta, infagottata in un piumino e con addosso uno zaino più grande di lei, e Gloria alta, elegante nel suo cappottino nero.
Abbracciai con affetto mia cugina, e poi, un po’ allarmata, la seguii con gli occhi mentre si staccava da me e raggiungeva il lato opposto della piazza. Mi voltai verso Gloria e lei si tolse gli occhiali, guardandomi dritta negli occhi, cogliendo il mio imbarazzo a trovarmi sola con lei.
Mi sorrise e mi strinse le mani. La guardai anch’io negli occhi, vedendola veramente per la prima volta, cercando le parole giuste per dare inizio a quello strano incontro. Non riuscii ad aprire bocca, neanche per chiedere scusa.
Per fortuna fu lei, dopo alcuni lunghissimi minuti, a rompere il ghiaccio.
“Sono felice di vederti”, mi disse allora con la sua voce roca, “Tu sei l’unica della famiglia che mi ha conosciuto solo come Gloria, e che non mi ha mai visto prima, quando ero ancora dentro al corpo di Giorgio”.