Fabio Granchi. Attore/autore di testi teatrali per bambini piccoli e grandi bambini. Partecipa al Concorso 50&Più per la quarta volta; nel 2017 ha ricevuto la Menzione speciale della giuria per la poesia e nel 2018 e 2019 ha ricevuto la Menzione speciale della giuria per la prosa. Vive a Livorno.
Mi vedo in quel pomeriggio freddo di venti anni fa camminare con passo incerto sotto i portici del Corso principale. “Affittasi Vendesi Chiuso per cessazione attività”. Contavo le vittime di una crisi economica crudele. Mi vedo ingoiare lacrime salate che se hai una ferita ti bruciano sulla pelle. Mi vedo arrivare in stazione con mezz’ora di anticipo all’orario del treno. “In questa città non mi riconoscono più”, mi dico, “Ranatto è diventata dove niente più ha lo stesso nome che conoscevo, per questo io sto fuggendo o forse mi sto andando a prendere quello che è un diritto di tutti, la serenità fatta di cose concrete, la dignità di un lavoro che qui non c’è per costruire una famiglia insieme ad un uomo”. Mi siedo nella sala d’aspetto. Così sei arrivato tu, mentre sillabavo il pensiero. Ti vidi attraverso il vetro della porta finestra. Correvi come il vento. Sei sempre stato un’atleta fin dai tempi del Ginnasio, dove eravamo compagni di classe. Rallentasti vedendomi anche tu. Davanti alla porta hai bussato al vetro, parevi chiedere il permesso di entrare nella mia vita. Fu il vento di te che spalancò ogni incertezza. Era un vento di passione. “Credevo di non aver fatto in tempo”, ansimasti le parole, “per questo sono venuta qui con mezz’ora di anticipo”. Mi sorpresi stupida e felice. “Non occorre partire”, mi hai detto, “La vita è nelle nostre radici”. La tua voce arrampicò il cielo e sovrastò il rumore del treno in arrivo. Il capostazione soffiò nel fischio la partenza del treno sul quale avrei dovuto salire. La tua mano si protese in avanti. Ti lasciai prendere la mia valigia che in quaranta anni avevo riempito di abiti e rimpianti. Riponemmo tutto nell’armadio a quattro ante della camera da letto, nella tua casa che da quel momento diventò la nostra casa. La vecchia valigia finalmente vuota prese a involarsi circumnavigando il soffitto della stanza a riempirsi di nuovi sogni. La luce della luna che filtrava dalle tende la illuminava e tu ed io supini fra le coperte- del letto vedemmo a quell’involucro di pelle scura consumata spuntare le ali del sole.
Dieci anni a combattere uniti gomito a gomiti per sopravvivere sono passati da quel giorno in stazione. Le nostre vite contano un secolo in due quando qualcosa sta per cambiare a Ranatto. Nelle piazze e per le vie è un continuo brulichio di voci che alle ore ventuno si acquietano nel silenzio totale. Sono tutti in casa posizionati davanti alla TV. E quando partono le note della sigla il programma ha inizio. La presentatrice è assisa su uno sgabello alto, occhiali argentati e cartelletta dello stesso colore dei capelli ricci rosso tinti. “Cari amici telespettatori questa sera parleremo dell’imminente apertura di una nuova industria nella città di Ranatto”. Dalle finestre e le porte spalancate per far entrare il fresco frizzantino di settembre esplode un grido di speranza. L’antico nome della città quando era al vertice dello splendore si leva alto all’unisono. La musichetta introduce la massiccia figura di un elegante uomo di mezza età. Giacca doppiopetto blù, camicia Oxford, cravatta regimental, ostenta fiera sicurezza. Cammina a passi lunghi, il petto in fuori, la testa alta, oscillando il busto su e giù come fosse in groppa a un cammello. “Diamo il benvenuto all’industrioso industriale Dottor Lui. Grazie di essere qui con noi. Si sieda pure”, squittisce la conduttrice scendendo dallo sgabello e appoggiandosi sulle scarpe décolleté a punta scamosciata tacchi dodici. “Grazie a questa trasmissione che mi dà l’opportunità di illustrare il nostro programma per un futuro migliore”. Il Dottor Lui, lui sprofonda nella poltrona di stoffa beige che sembra concepita e modellata a sua somiglianza. “Assolutamente. Illustri pure. Siamo tutti in fremente attesa”, l’interlocutrice torna seduta sul trespolo. “La nostra produzione riuscirà a soddisfare la richiesta di un mercato esteso a livello internazionale. Investiremo sulla mano d’opera locale del paese di Ranatto”, il Dottor Lui, lui gradua il tono della voce per raggiungere l’enfasi pura, “Stabilimento OMUF!”, sillaba con maestria. C’è un momento di perplessità superato dalla conduttrice che interviene “…e cosa produrrà?”. “FUMO”. La risposta provoca palpabile sconcerto nei cittadini di Ranatto. Si odono sospiri, rantoli e anche qualche improperio all’indirizzo dell’intervistato. Il Dottor Lui, lui continua “Produrremo 24 ore su 24 in modo da dare lavoro a tutti”. A quelle parole i ranattiani esplodono in un formicaio di suoni. Qualcuno comincia perfino a intonare vecchi canti della tradizione locale. Il Dottor Lui, lui si passa una mano sulla testa calva emanando compiacente ego “Chiaramente il FUMO OMUF è destinato a un segmento di mercato eccelso. Abbiamo prenotazioni anche da esponenti di quel range in cui, non voglio sembrare irrispettoso, mentire è comunicare: la politica”. Il Dottor Lui, lui si lascia andare alla confidenza per accattivarsi l’audience ma se ne è già pentito. “Un ultimo ma non da meno importante quesito”, la presentatrice si riappropria dell’immagine, “La OMUF rispetterà le norme della sicurezza e la salute dei cittadini di Ranatto ?”. “Chiaramente saranno programmati rigorosi controlli di prevenzione”, il Dottor Lui, lui accorda la voce su toni bassi e avvolgenti, “Troppi incidenti sul lavoro troppe vittime innocenti. Basta con l’inquinamento atmosferico…il mondo deve respirare”. Il Dottor Lui, lui sorride mentre alle sue spalle si accende una luce bianca e soffusa che lo ascende alla beatificazione. “Vogliamo una società più giusta e civile. La parola d’ordine è …” dalla tasca interna della giacca il Dottor Lui, lui tira fuori una bomboletta spray verde ramarro con la scritta nera OMUF. Spruzza il liquido nebuloso trasparente, circumnaviga l’aria e plana sull’obbiettivo della telecamera “…credeteci!”. L’audience schizza ai massimi storici, in studio e a casa il pubblico si alza in una standing ovation interminabile. Il regista manda la sigla e i titoli di coda. I ranattiani spengono la TV e vanno a dormire contenti. Sognano il Gigante Buono.
Ormai due lustri ancora sono passati dal tuo ingresso allo Stabilimento OMUF. Abbiamo una casa nuova, l’auto, la moto. Abbiamo tutto, perfino l’asciugabiancheria ma le piazze e le strade da tempo sono tornate deserte. Dal sogno all’incubo originario. Il Dottor Lui, lui manda messaggi di solidarietà ma intanto gli alberi e le facciate delle case gli uni davanti alle altre recintano il silenzio. Quando c’è vento non si può respirare. Il Gigante Buono dal Fumo Cattivo con i suoi grandi camini spande lavoro e morte. Ma nessuno se ne vuole andare, anche le onde del mare si ritirano ma poi ritornano, è un flusso e riflusso naturalmente obbligato. Non possiamo scegliere se vivere o lavorare, se scappare o morire. La nostra vecchia valigia acchiappa sogni è planata sull’armadio tramontando le ali, ne avevamo sempre avuto timore. E’ stato ieri. Mi hai cominciato a leggere con voce flebile, il FUMO OMUF ti stava consumando “dentro”, una pagina del tuo fedele taccuino sul quale a te piaceva, fra cuori e poesie a me dedicate, “incidere” con parole di fuoco i tuoi pensieri per un mondo migliore, un mondo di uguali diritti alla vita.
“90 morti 648 ricoveri ospedalieri ogni anno attribuibili all’inquinamento atmosferico causato dai fumi residuali della fabbrica. L’azienda viene definita dai giudici: fabbrica di malattia per gravi violazioni all’ambiente. Ma per tutelare l’industriosa Industria il governo decide di non chiudere la fabbrica ma di proseguire la produzione di FUMO… diritto al lavoro ma anche diritto alla salute. FUMO”.
Hai sfilato dal taschino della camicia la tua penna a inchiostro verde e con quella hai scolpito il tuo ultimo messaggio: “Il lavoro è economia esistenziale. Ma lavorare vuol dire anche morire e per chi muore c’è sempre qualcuno pronto a prendere il posto FUMO FUMO. Bisogna avere il coraggio di dire basta a questa spirale di ricatto, ritrovarsi uniti in obiettivi comuni, Solo così ogni lavoratore in quanto uomo sarà libero. Solo così ogni realtà sconvolta dalla cupidigia e la ferocia umana fino a smarrire le proprie radici, tornerà a riappropriarsi della propria dignità, del proprio nome. Solo così l’anagramma RANATTO tornerà ad essere TARANTO”.
La tua mano ebbe un sussulto e l’indice e il pollice hanno liberato il volo della penna che ha volteggiato un inchino rotondo nell’aria ed è infine precipitata verticalmente. In quell’attimo la piccola punta a sfera ha impresso sulla terra che accoglie per poi donare, un seme verde. Per sempre.