Nel Regno Unito i datori che non tutelano il personale in menopausa rischiano l’accusa di discriminazione. Ma non tutti sono d’accordo.
Mentre sempre più Paesi (Spagna, prima in Europa dal 2023, Giappone, India, Corea del Sud, Cina) concedono alle lavoratrici il congedo mestruale, la Gran Bretagna fa un ulteriore passo in avanti. L’EHRC, la commissione inglese per le pari opportunità, ha infatti appena pubblicato una guida per i datori di lavoro e le loro dipendenti in menopausa.
Con un numero crescente di donne che entrano in menopausa durante l’attività lavorativa, infatti, diventa fondamentale per le imprese capire come supportare le dipendenti in questa fase delicata della vita. Ciò, spiega l’Authority, è necessario non solo per rispettare gli obblighi legali, ma anche per garantire che le donne possano continuare a dare un contributo prezioso al lavoro.
La responsabilità del datore di lavoro
Le raccomandazioni dell’EHRC offrono ai datori soluzioni pratiche e attuabili, incoraggiando a parlare apertamente di menopausa sul posto di lavoro. Nel documento si legge che i sintomi della menopausa che “hanno un impatto sostanziale e a lungo termine sulla capacità della donna di svolgere le normali attività quotidiane, sono considerati una disabilità”. E se ciò accade, il datore di lavoro ha l’obbligo legale di apportare “modifiche ragionevoli”. Tra queste, consentire il lavoro da casa, abbassare la temperatura in ufficio e garantire una flessibilità di orario per far attaccare più tardi chi soffre di insonnia. In caso contrario il rischio è quello di un’accusa di discriminazione. Inoltre, ogni linguaggio che “ridicolizza” le donne in menopausa può essere considerato molestia.
Menopausa e lavoro
Da qualche tempo la menopausa è un argomento molto dibattuto nella società britannica, dove campeggia su media e giornali che riportano le confidenze e le difficoltà di personaggi famosi. Alle associazioni di sostegno come Pausitivity si aggiungono i sondaggi come quello della Fawcett Society. Il 44% delle intervistate imputa alla menopausa una diminuzione nella capacità lavorativa. Il 18% afferma di trovarsi nell’impossibilità di svolgere le proprie mansioni. Il 26% si è assentato dal lavoro, ma solo il 30% ha indicato la menopausa come motivo principale dell’assenza. Il 14% ha ridotto l’orario o è passata al part time e 1 su 10 si è licenziata a causa dei sintomi. Dati confermati anche da uno studio del Chartered Institute of Personnel and Development, col quale si scopre che i sintomi della menopausa hanno un impatto negativo sul 67% delle lavoratrici tra 40 e 60 anni. Il 79% accusa difficoltà di concentrazione, il 49% di essere meno paziente con clienti e colleghi. Il 46% di sentirsi fisicamente meno in grado di svolgere compiti lavorativi.
Il garante dell’uguaglianza
Anche se le cose stanno cambiando, la menopausa sul lavoro può essere ancora un tabù. Spesso le stesse donne hanno problemi a parlarne apertamente, col rischio di autodiscriminarsi. Le direttive dell’HERC non nascono dal nulla, ma si rifanno all’Equality Act approvata nel 2010. La legge sull’eguaglianza contro le discriminazioni basate sull’età e sul sesso, impone di fatto ai datori di lavoro di apportare le modifiche necessarie per garantire la parità delle dipendenti. La decisione tuttavia ha provocato reazioni differenti nel Paese. Se infatti da molti è stata recepita come un aiuto alle lavoratrici che accusano difficoltà a dormire, vampate di calore e “brain fog” (un senso di “annebbiamento” e difficoltà di concentrazione), per altri non è così.
Il dibattito nella società
Alcuni datori di lavoro, tra cui la Federazione di polizia di Inghilterra e Galles, si mostrano perplessi sul valutare una fase naturale della vita – la menopausa – come disabilità. Un giudizio peraltro condiviso anche da parte di alcuni esponenti della società scientifica. L’ammonimento dell’EHRC peraltro giunge dopo che la ministra per le Pari opportunità, Kemi Badenoch, ha bocciato la proposta di equiparare la menopausa a gravidanza e maternità per ottenere congedi temporanei dal lavoro. La motivazione? “Introdurre un diritto al congedo per menopausa sarebbe oltremodo costoso, difficile da implementare e foriero di conseguenze imprevedibili”. Il fatto che anche il Parlamento si mostri titubante nell’affrontare l’argomento indica una situazione incandescente.
“Si può fare”, l’esempio della Sanità britannica
Che semplici misure ambientali sul lavoro (l’uso di condizionatori), orari flessibili e tessuti traspiranti per le divise migliorino la qualità di vita delle lavoratrici tra 40 e 60 anni è un fatto. Lo stanno sperimentando le dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale inglese che dal 2022 possono, nei casi più gravi, persino lavorare da casa. “La menopausa non è una malattia, è una fase della vita. Voglio che tutte le donne del SSN che affrontano questo momento abbiano il giusto supporto per rimanere a lavorare e prosperare”. Così Amanda Pritchard, Ceo della Sanità pubblica inglese, ha spiegato il provvedimento. L’intento è che altri datori seguano l’esempio, promuovendo soluzioni pratiche per dare una mano concreta alle lavoratrici. La nuova guida dell’Authority va decisamente in questo senso.
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