Quest’anno ricorre il trentennale dalla scomparsa di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, uccisi rispettivamente il 23 maggio e il 19 luglio 1992. Due simboli di giustizia e di lotta alla mafia che hanno segnato per sempre la storia del nostro Paese
Ci sono due bambini che corrono in Piazza della Magione, a Palermo. Abitano nel quartiere della Kalsa e giocano nel caldo delle giornate siciliane. La sera, quando è ora di tornare, devono percorrere solo quei duecento metri che dividono le loro case. Si chiamano Giovanni e Paolo e le loro vite sono destinate a intrecciarsi. Qualche anno dopo, infatti, si iscrivono al liceo classico e dopo la maturità optano per gli studi in Legge. Entrambi si laureano a pieni voti e cominciano la loro carriera da magistrati: il primo a Trapani e il secondo a Mazara del Vallo. È quello, forse, il vero primo passo che traccia il cammino su cui lavoreranno – separatamente e insieme – Falcone e Borsellino, perseguendo l’ideale di un mondo più giusto e di un Paese libero da affari malavitosi. Negli anni in cui i due iniziano le loro carriere da magistrati, infatti, Cosa Nostra agisce quasi in maniera indisturbata, mentre l’Italia fronteggia il terrorismo di Piazza Fontana, Piazza della Loggia e dell’uccisione di Aldo Moro. Negli Anni ’80, poi, il capoluogo siciliano è palcoscenico di una guerra tra gruppi malavitosi, con lo scopo di ottenere il controllo dell’organizzazione. A perdere la vita, in quei mesi, sono centinaia di persone, tra cui alcune figure dello Stato come Pio La Torre, Carlo Alberto Dalla Chiesa e Rocco Chinnici.
IL POOL ANTIMAFIA E IL MAXI PROCESSO
Lo stesso Chinnici che poco prima aveva riunito le vite dei giovani magistrati palermitani, costituendo il primo pool antimafia e chiamando accanto a sé proprio Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Da quel momento passano sei anni e il 10 febbraio del 1986 inizia il maxiprocesso a Cosa Nostra. Un’operazione nata grazie alla straordinaria abilità di Falcone, il primo a ottenere la testimonianza di un pentito grazie alla quale scoprire relazioni, gerarchie, affari e movimenti che permetteranno l’emissione di più di 350 mandati di cattura. Negli anni seguenti, mentre i gradi di appello del processo si susseguono, a Falcone viene affidata la carica di Direttore agli Affari Penali al Ministero della Giustizia ed è qui che decide di organizzare la lotta alla criminalità organizzata a livello nazionale e istituisce la DIA (Direzione Investigativa Antimafia) e la DNA (Direzione Nazionale Antimafia).
23 MAGGIO, LA TERRA TREMA A CAPACI
Si arriva, così, al 1992, l’anno in cui scoppia l’inchiesta “Mani Pulite” e Francesco Cossiga si dimette da Presidente della Repubblica. È in questo clima che arriva la sentenza definitiva del maxiprocesso e la Cassazione conferma la validità delle testimonianze dei pentiti. La mafia a quel punto, colpita duramente, reagisce. Lo fa in un giorno di maggio sul tratto dell’autostrada A29 che collega Palermo a Mazzara del Vallo. All’altezza dello svincolo per Capaci, infatti, passa un tunnel di scolo per l’acqua e al suo interno vengono posizionati 400 chilogrammi di miscela esplosiva. Su alcune colline poco lontano, qualcuno attende il passaggio di tre Fiat Croma proprio in quel punto. All’interno delle auto ci sono Giovanni Falcone e la moglie, insieme alla scorta che li accompagna. Sono le 17.58 quando il dito di uno degli attentatori preme il detonatore. La prima Croma bianca in testa al corteo viene sbalzata di 60 metri e i tre agenti della scorta al suo interno (Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro) perdono la vita sul colpo. La seconda auto, su cui si trovano Falcone, la moglie Francesca Morvillo e Giuseppe Costanza, impatta contro il muro d’asfalto sollevato dalla deflagrazione dell’ordigno. Nell’ultima vettura, gli agenti Paolo Capuzza, Gaspare Cervello e Angelo Corbo rimangono feriti, ma vivi. Nelle ore che seguono lo sgomento fa spazio alla paura, alla rabbia e soprattutto al dolore, quando Giovanni Falcone si spegne all’ospedale tra le braccia dell’amico Paolo Borsellino, e con lui la moglie Francesca.
QUEL 19 LUGLIO IN VIA D’AMELIO
Due giorni dopo, ai funerali del magistrato, della moglie e degli agenti della scorta, la chiesa di San Domenico è gremita di palermitani che chiedono giustizia. Tra loro c’è un uomo, però, che sa di essere ancora in pericolo, ma sa anche di non volersi fermare. Nemmeno due mesi più tardi, Paolo Borsellino è nel quartiere di Monte Pellegrino, in via Mariano D’Amelio 21. Lì è dove vive la madre e dove ogni domenica lui si reca a farle visita. Alle 16.59 del 19 luglio, Borsellino sta scendendo dall’auto per entrare nel palazzo, quando una Fiat 126 verde salta in aria con 90 chili di esplosivo. È una bomba che danneggia le facciate dei palazzi, distrugge alcune macchine e spegne la vita del magistrato. Con lui perdono la vita anche cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
UN RICORDO INDELEBILE, TRENT’ANNI DOPO
Un capitolo nero della storia italiana che deve essere ricordato e raccontato. Per questo, in occasione del trentennale dalla morte dei due magistrati, simbolo della lotta alla mafia, il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha deciso di coniare tre milioni di monete da 2 euro che raffigurano l’iconica foto di Falcone e Borsellino intenti a chiacchierare sorridenti a un convegno, poco prima delle due stragi che costarono loro la vita. Il disegno è stato composto dall’artista incisore Valerio De Seta ed è basato sulla famosa fotografia di Tony Gentile, scattata proprio nel 1992. Per la stessa ragione, dal mese di marzo, una teca con i resti della Quarto Savona Quindici, l’auto della scorta di Giovanni Falcone su cui persero la vita Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani, è comparsa in varie piazze d’Italia: da Milano a Pistoia, passando per Trieste, Bologna, Ravenna, Pescara e molte altre. Un vero e proprio memoriale itinerante che sembra dar voce alle celebri parole pronunciate da Falcone: «Gli uomini passano, ma le idee restano. Restano le tensioni morali che continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini». Un inno che, dopo trent’anni, muove ancora gli ideali di chi si batte per la giustizia.
© Riproduzione riservata