Tre interviste a tre autori italiani e un unico punto in comune: la visione della vecchiaia. Ne esce un dipinto variegato, a tinte chiaroscure, dove l’anzianità può essere una grande avventura o una tragica esperienza
Mettiamo a confronto tre narratori che recentemente si sono cimentati in romanzi che affrontano la realtà degli over da prospettive completamente differenti. Marco Malvaldi, con la nuova avventura dei suoi vecchietti-detective del BarLume in Bolle di sapone; Andrea Gentile, che propone l’adolescenza e la vecchiaia di un personaggio femminile molto particolare, il cui nome dà il titolo a Tramontare; Fabio Stassi, che rilegge in chiave realistica la storia di Pinocchio descrivendo gli ultimi giorni di Mastro Geppetto.
Iniziamo proprio dal personaggio più noto e più amato, il babbo del burattino Pinocchio, che lei, Stassi, descrive come un anziano in difficoltà…
Oggi viviamo in un mondo sempre immerso in una finzione. Nelle finzioni delle serie tv, degli articoli che leggiamo, della rete. Un mondo in cui è più difficile riuscire a osservare ad occhi aperti e lucidi la realtà. In questo periodo sento forte l’esigenza di tornare alla realtà, e questo mi ha portato a pensare che anche le storie che conosciamo bene, fin da bambini, cambiano con il tempo, insieme a noi, alla nostra età. Un libro che leggiamo da ragazzi o da anziani cambia davvero di senso. E le storie mutano anche con quello che accade fuori di noi. Mi è venuta una sorta di folgorazione, l’idea che Pinocchio fosse un pezzo di legno inanimato, e che noi per 140 anni abbiamo creduto alla favola che potesse parlare, ridere, fare i salti mortali. Invece un pezzo di legno è solo un pezzo di legno. Un’idea fortissima, che si è trascinata tutto il resto. Se è un pezzo di legno come sono andate davvero le cose? È nato tutto da un brutto scherzo, cattivo, feroce, perpetrato da un intero villaggio contro l’ultimo degli ultimi, un vecchietto fragile, che ha perso il senno, che si è smarrito, che parla con la Luna, gli alberi, le cose; l’unico che può credere che un pezzo di legno è animato. Cambia tutto il senso: non è più la storia di Pinocchio, ma quella di Mastro Geppetto e della cattiveria del villaggio nei suoi confronti, del suo precipitare sempre più, passo dopo passo, nell’afasia, nella perdita del linguaggio, della memoria. Nella paura, anche. Ma, al tempo stesso, opponendo a tutto il desiderio forsennato di avere questo figlio, di inseguirlo ovunque. Le avventure di Pinocchio diventano quelle di Mastro Geppetto, sono le stesse ma sono un’altra cosa.
Se Mastro Geppetto precipita a poco a poco nelle sue difficoltà esistenziali, i suoi vecchietti, Malvaldi, sono invece sempre più arzilli e vivaci, capaci di gestire una nuova indagine in tempi di pandemia, anche stando dietro lo schermo di un computer e non al BarLume…
Ho voluto raccontare la storia che abbiamo vissuto tutti noi due anni fa circa. A un certo punto ci è arrivato un meteorite in testa. E ci siamo ritrovati chiusi in casa. Mi sono chiesto come raccontare in tono leggero qualcosa che non era leggero per niente. La commedia all’italiana è proprio questo: rendere comica una situazione tragica. Per fortuna, per passare un po’ il tempo ammazzano qualcuno in Calabria, dove la fidanzata di Massimo, il vicequestore Alice, sta seguendo un corso di aggiornamento. Vengono trovati morti i due gestori di una pizzeria: lei avvelenata da un barattolo di funghi, senza che sia chiaro se si tratti di un omicidio o di una disgrazia alimentare; lui, invece, colpito da una carabina di precisione mentre è in fila a fare la spesa, situazione in cui ci siamo trovati tutti. Nel frattempo i vecchietti sono tutti chiusi in casa, tranne Ampelio che è all’ospedale un po’ depresso per aver rotto il femore a più di novant’anni. Le indagini partono in un vero e proprio smart work, con operazioni non troppo lecite, come la trafugazione di materiale, fino ad arrivare all’happy end immancabile del caso. Il colpevole è smascherato e la giustizia che trionfa.
Invece, Andrea Gentile, Tramontare, nomen omen, è un personaggio scomodo, spigoloso, che non ama mescolarsi con gli altri, difficile…
Il mio libro va, in vario modo, a esplorare un sentimento che definirei, come diceva Leopardi, “l’apprezzamento della morte”. Noi viviamo accompagnati da questa istanza, da questo pensiero, che è un’assenza di cui non conosciamo i contorni perché la stiamo vivendo. Non a caso il nome della protagonista potrebbe essere quello di qualsiasi essere vivente su questo pianeta. Non si chiama Tramonto, qualcosa di chiuso, ma Tramontare, che è in divenire. Potremmo dire che un neonato, quando nasce, è già destinato a questo tramontare. «Io sono la morte», come afferma la protagonista, è una frase che in vario modo potremmo dire noi tutti, perché abbiamo un pezzo di mente che ogni tanto ci porta in quella direzione. Se la consideriamo però non come qualcosa di nefasto e di nerissimo, ma come qualcosa da accogliere in maniera esperienziale, possiamo provare a fare un parallelismo con la letteratura, che può essere uno spazio dove si contempla il mondo. Per gli antichi, la contemplazione era in qualche modo una forma di divinazione. Se come esseri viventi, come lettori, come scrittori – lettura e scrittura sono due atti molto simili, non vedo nessuna grossa differenza, si tratta di attraversare un’esperienza – riusciamo a contemplare ciò che accade di fronte ai nostri occhi, sopra di noi, nel cielo oppure dentro un testo, è possibile vivere con maggiore consapevolezza. Forse la letteratura ha anche questa vibrazione dentro di sé.
Lei, Malvaldi, chiama i quattro che giocano a carte al BarLume e partecipano alle indagini di Massimo in una varietà di modi che va da “giovanottini” a “vecchiacci”. In realtà, come considera gli anziani?
Arrivare a una certa età è un privilegio. Quando mio nonno ha compiuto 90 anni, mio fratello, credendo di poterlo prendere in giro, gli chiese come si stava a quell’età. E lui, che si era lamentato fino a un momento prima, rispose guardandolo male: «Parecchio meglio dell’alternativa, bimbo». È chiaro che invecchiando si perdono delle capacità, ma se ne acquisiscono altre. C’è una poesia di Jorge Luis Borges che dice che la vecchiaia può essere il più felice dei tempi, perché l’animale è morto o quasi, e resta solo il cervello che ragiona. Credo sia un modo di vivere diverso, molto più denso, e che al tempo stesso riesce a dare più significato a cose che prima scorrevano troppo veloci. Sono curioso, lo devo dire. Se mi date una trentina, quarantina d’anni per arrivarci, magari lo scopro anch’io. È invidia la mia per i vecchietti, perché so che a quell’età ci sono arrivati.
Eppure ancora oggi c’è molta disattenzione verso gli anziani da parte delle autorità. Siamo in una società che, come dice Papa Francesco, “porta con sé il virus della morte”… Lei, Stassi, cosa ne pensa?
Le parole del Papa mi fanno capire ancora di più l’esigenza che ho provato nel mettere Geppetto al centro, a ergerlo a protagonista e farlo in qualche modo parlare per tutti gli anziani. La luce nuova di questa storia mi ha fatto vedere che c’è una società che umilia gli anziani, che raramente sono stati così poco considerati. Specialmente nel nostro Paese, in cui le strutture non favoriscono la mobilità soprattutto alle persone della terza età. L’apatia, la solitudine sono l’arrivo per un anziano che non ha nessuno con cui poter parlare. Io sono cresciuto in un altro secolo, con le storie dei miei nonni e dei miei bisnonni. Erano tutte favolose, anche se loro non avevano studiato. Avevano vissuto, avevano soprattutto visto la guerra. Erano storie di sopravvivenza. Ogni racconto è una storia di sopravvivenza che, semplificando, ti dice la vita è questa cosa qui, è molto dura, molto difficile, c’è la cattiveria, c’è la malattia, c’è l’odio, c’è la povertà. Però vale la pena vivere ogni istante: questa è la terapia del raccontare. Vedevo i miei vecchi che fino all’ultimo attimo si aggrappavano alla vita con il sentimento che la morte arriva come un’ingiustizia. Però con una dignità e un’accettazione piena di ogni cambiamento fisico. Oggi mi sembra che si incappi nel non riuscire più ad accettare l’invecchiamento come qualcosa di naturale. E quindi nel soffrirne, nel deprimersi. Poi ci manca la comunità, lo stare insieme a una varietà umana. In fondo se io scrivo è perché da bambino sono stato in contatto con molti tipi umani, tra zii, zie, parenti che venivano, qualcuno di diverso che arrivava ogni tanto. È stata una grande scuola. Oggi è più facile purtroppo, ed è una trappola, essere concentrati soltanto su se stessi.
Ritenete ci sia un momento topico in cui la vita inizia a togliere più di quello che dà?
Andrea Gentile – Penso che possa farlo continuamente, ma possa anche darci continuamente, in momenti inattesi, qualcosa che non ci aspettavamo. Se siamo ben concentrati, anche il sorriso di un passante può essere qualcosa di bello da vivere.
Marco Malvaldi – Credo ci sia una terra di mezzo tra il lavoro, il pensionamento e il dimenticatoio totale. Stiamo fortunatamente andando tutti verso un’età più avanzata. Prima i vecchietti, gli ultraottantenni, erano fortunati e preziosi, oggi stanno diventando una parte non così trascurabile della società. Di una società che dà sempre meno importanza alla prestanza fisica, dando valore alla capacità di gestire più situazioni contemporaneamente. Con meno fisico e più saggezza è possibile che l’età attiva si sposti sempre più in là. In molti vivono il momento di passaggio facendo volontariato. Penso che potrebbe essere integrato in maniera sistematica nella società, perché avere persone che hanno vissuto certi problemi prima di noi e sono ancora abbastanza lucide da poterli gestire e organizzare non è affatto da disprezzare.
Fabio Stassi – Il momento di passaggio per me è stato quando mi sono reso conto che, tra le persone che ho conosciuto, è maggiore il numero di coloro che non ci sono più. Mi è sembrato di aver superato un confine e la nostalgia per tutto ciò che mi manca, per le persone con cui non posso più comunicare, è triste e dolorosa. Ma c’è una catena di trasmissione che dobbiamo ripristinare. Ora tocca a me parlare anche per chi non c’è più e trasmettere agli altri quello che mi è stato trasmesso. La nostalgia deve essere un motore per muoverci e rimboccarci le maniche, non per ripiegarci su noi stessi o sul passato. Il passato ci serve per immaginare un futuro possibile.
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