Nel caso in cui il diritto alla pensione risulti già maturato in base ai contributi in precedenza versati, la contribuzione successiva non può penalizzare l’importo della prestazione potenzialmente maturata. E ciò soprattutto quando – per fattori indipendenti dalle scelte del lavoratore – la contribuzione abbia un valore ridotto rispetto a quelle precedenti.
Si può ragionevolmente pensare che tanto maggiore è il numero dei contributi che vengono accreditati ad un lavoratore, tanto più elevato sarà l’importo della pensione di cui potrà godere.
Tuttavia, questo principio, valido in linea generale, ha alcune eccezioni, che si verificano in un numero di casi più elevato di quanto si potrebbe immaginare.
Soprattutto in un periodo di crisi economica strutturale come quello che stiamo attraversando ormai da anni (ulteriormente acuito dalla pandemia degli ultimi due anni e, più recentemente, dalla crescita abnorme del prezzo dell’energia e dalla guerra all’interno dell’Europa), si possono infatti verificare situazioni di riduzione della retribuzione, di ricorso alla cassa integrazione o di periodi di disoccupazione che possono influire negativamente sulla futura pensione, abbassandone l’importo.
Questo rischio riguarda i soli lavoratori ai quali si applica il sistema di calcolo “misto” (con la presenza di una quota retributiva): per i contributivi puri (quelli, cioè, entrati nel mondo del lavoro a partire dal 1996), invece, questo rischio non c’è e qualsiasi contributo accreditato va comunque ad aumentare il “montante contributivo” su cui sarà poi calcolata la pensione.
Ma focalizziamoci sui lavoratori a cui si applica il sistema misto/retributivo, che costituiscono ancora oggi una larga fascia dei lavoratori attivi.
Ai fini del calcolo della quota di pensione retributiva, si tiene conto delle retribuzioni percepite negli ultimi 5 o 10 anni; pertanto, se negli ultimi anni precedenti il pensionamento, anziché far valere retribuzioni in crescita, il lavoratore ha subìto una riduzione di stipendio o ha percepito l’indennità di disoccupazione, l’importo della pensione potrebbe risultarne penalizzato, perché queste retribuzioni ridotte possono abbassare la retribuzione media settimanale su cui l’importo di pensione viene calcolato.
In questi casi, quindi, il lavoratore deve rassegnarsi ad essere penalizzato? No. L’ordinamento previdenziale consente ai lavoratori che si vengano a trovare in questa situazione una salvaguardia, ossia l’istituto della “neutralizzazione” (previsto fin dal 1957: articolo 37 del DPR 818/1957) che consente – entro certi limiti ed a certe condizioni – di escludere dal calcolo della pensione i contributi svantaggiosi e penalizzanti, che comportano un importo di pensione meno favorevole.
Questa possibilità, prevista – come detto – già da alcune norme previdenziali, è stata progressivamente ampliata da diversi pronunciamenti della Corte Costituzionale (tra i quali vale la pena segnalare la sentenza n. 264/1994 in merito ai periodi con retribuzione ridotta; la n. 82/2017 relativa ai periodi di disoccupazione indennizzata; la n.173/2018 relativa ai lavoratori autonomi), che hanno sancito la possibilità per i lavoratori – sia dipendenti che autonomi – di “sterilizzare” i contributi che si rivelino dannosi e penalizzanti per il calcolo della pensione, a condizione, ovviamente, che non risultino determinanti per il relativo diritto (a pensione di vecchiaia o anticipata).
I principi sanciti da queste sentenze sono stati, nel corso del tempo, recepiti anche dall’INPS: “L’esclusione dal calcolo della pensione dei periodi di retribuzione ridotta non necessari ai fini del perfezionamento dell’anzianità contributiva minima è finalizzata a evitare un depauperamento del trattamento pensionistico causato dallo svolgimento di un’attività lavorativa meno retribuita nell’ultimo quinquennio di lavoro” (circolare INPS n.133/1997).
Peraltro, a dimostrazione dell’attualità del tema, la materia è stata oggetto anche di un recente messaggio (n. 883 del 23 febbraio 2022), con cui l’INPS illustra gli effetti della neutralizzazione dei periodi di contribuzione per disoccupazione, in applicazione della citata sentenza 82/2017.
La neutralizzazione relativa ai periodi di rioccupazione con uno stipendio inferiore a quello percepito in precedenza ed ai periodi di disoccupazione indennizzata, può essere concessa per un massimo di 260 settimane (5 anni) di contributi.
Al contrario, la neutralizzazione dei contributi relativi a periodi figurativi di integrazione salariale e a periodi di contribuzione volontaria non soggiace ad alcun limite, salvo – come detto – la condizione che i contributi da neutralizzare non siano necessari al raggiungimento del diritto.
Ad oggi, quindi, la possibilità di neutralizzare periodi contributivi “dannosi” ai fini dell’importo di pensione riguarda periodi relativi a:
- integrazione salariale;
- versamenti volontari;
e, se ricadenti nell’ultimo quinquennio di contribuzione (le ultime 260 settimane di contribuzione) o nel corso di esso, relativi anche a periodi di:
- rioccupazione con retribuzione ridotta;
- disoccupazione indennizzata.
Come molti diritti previdenziali, anche quello alla “neutralizzazione” non opera in automatico: non sarà quindi l’INPS ad “accorgersi” della penalizzazione e ad applicare (o, quanto meno, a proporre all’interessato) l’esclusione dei periodi dannosi. Al contrario, spetta al lavoratore l’onere di presentare all’INPS una richiesta di neutralizzazione dei contributi che possono penalizzare l’importo della pensione.
La richiesta può essere avanzata contestualmente alla domanda di pensione o anche successivamente al pensionamento e, in questo caso, ha effetto dalla decorrenza originaria della pensione, con pagamento degli arretrati – se dovuti – nei limiti della prescrizione.
La valutazione in merito alla possibilità di operare la neutralizzazione presuppone, tuttavia, una consulenza approfondita, non solo al fine di verificare che i contributi di cui si vuol richiedere l’esclusione non risultino determinanti ai fini del diritto a pensione, ma anche per valutare l’effettiva convenienza di questa operazione, nonché la sussistenza dei presupposti che la rendono possibile e conveniente, mediante la verifica di una serie di condizioni, tra le quali:
- nel caso di cambiamento dell’attività lavorativa nell’ultimo quinquennio di contribuzione, è necessario prendere a riferimento la retribuzione settimanale media percepita nell’anno di cessazione della precedente attività, calcolata sulla base delle retribuzioni percepite per tale attività, e metterla a confronto con la retribuzione media settimanale percepita nello stesso anno, calcolata sulla base delle retribuzioni percepite in relazione alla nuova attività lavorativa;
- deve essere escluso dal computo della retribuzione pensionabile e dell’anzianità contributiva tutto il periodo di lavoro svolto a partire dal cambiamento di attività ovvero, in caso di riduzione retributiva avvenuta nell’ambito dello stesso rapporto di lavoro, tutto il periodo di lavoro svolto a partire dall’anno solare in cui è iniziata tale riduzione;
- il periodo di contribuzione per disoccupazione dovrà essere escluso totalmente dal ricalcolo del trattamento pensionistico, poiché non è consentito neutralizzare singoli periodi all’interno del periodo massimo di 5 anni. Qualora il periodo contributivo di disoccupazione sia in quota parte necessario a maturare la pensione, il lavoratore potrà escludere dal computo della retribuzione pensionabile le settimane posteriori al raggiungimento del requisito contributivo minimo per il diritto al trattamento pensionistico.
Gli Uffici 50&PiùEnasco presenti su tutto il territorio nazionale possono fornire ai lavoratori interessati tutte le valutazioni e la consulenza necessaria, verificando l’opportunità e la convenienza della neutralizzazione.
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