Giuseppe Tiziani. Pensionato, ex Dirigente aziendale con la passione della scrittura, soprattutto la poesia. Lo scorso anno tra cui la poesia. Ha raccolto le sue poesie in un libro dal titolo “Accordi in crescendo”, che ha regalato agli amici e dedicato al suo nipotino Leonardo, di due anni, che vive nel Michigan. Partecipa al Concorso 50&Più per la settima volta. Vive a Daverio (Va).
Non appena finiva la scuola ed arrivava l’estate, la mamma lo accompagnava in montagna, dai nonni.
Era sempre un viaggio avventuroso, che lo emozionava e lo faceva sognare.
La prima volta aveva otto anni e si immergeva in questo viaggio con tanta curiosità e pieno d ‘entusiasmo.
Si partiva presto la mattina per raggiungere Milano. Qui la stazione era enorme, con tantissimi binari. Sua mamma, affaticata per il peso delle valigie, sapeva però trovare quello giusto.
Sulle carrozze c’era il cartello Milano-Venezia e in testa al treno c’era una locomotiva a vapore che sbuffava. Il tragitto era lungo e con frequenti fermate.
Leonardo ricorda che, se si affacciava al finestrino, a seconda della direzione delle rotaie, si riempiva la faccia di fuliggine. Dopo quattro ore, si arrivava alla stazione di Padova, dove si aspettava la coincidenza per Calalzo. L’attesa era lunga e snervante, ma poi il tragitto era bellissimo.
Prima di tutto non c’era la locomotiva a vapore ma una “littorina”, che nella sua mente rappresentava già un’innovazione, e poi il paesaggio dal finestrino era spettacolare. Si scendeva a Feltre e, in pullman, si raggiungeva il piccolo borgo di montagna di San Donato. Era già quasi sera.
È qui che passava da bambino le sue estati a “prendere l’aria buona”. Viveva i mesi estivi con i nonni.
Come quasi tutti, in questa valle, possedevano una mucca in stalla, un maiale nello stabbiolo e qualche gallina nel pollaio. Erano la loro fonte di sussistenza.
Suo nonno aveva abbandonato la pastorizia, sua prima attività professionale, convinto dalla nonna con la promessa di matrimonio. Ora doveva badare agli animali ed ai campi.
Leonardo si divertiva ad andare con lui a sfalciare i prati per il foraggio. Partivano all’alba, con la colazione al seguito e ritornavano al tramonto. Ogni volta si andava in un posto diverso. In ciascuna zona di sua proprietà aveva eretto un barc, una sorta di palafitta costruita sul pendio del prato, con un tetto di paglia o di lamiera ondulata, regolabile in altezza, dove immagazzinare il fieno in attesa di essere trasportato a valle.
Nei campi, situati più vicini alla casa, coltivava in prevalenza patate e fagioli. Lavorare la terra in montagna è una impresa titanica. Dissodare la terra è già una fatica, ma poi occorre, su terreni in grande pendenza come quelli di montagna, riportare a monte la terra che, col tempo e con la pioggia, scivola a valle. In aggiunta, provvedere alla concimazione consisteva nel portare a forza di braccia gerle di stallatico dalla stalla.
In tutti questi lavori c’era l’abitudine di aiutarsi tra i componenti della comunità, in una sorta di lavoro solidale.
Gli piaceva al tramonto portare con malcelato orgoglio, il latte, munto due volte al giorno, alla latteria del borgo, dove poi veniva trasformato in forme di formaggio e panetti di burro. O accompagnare la mucca del nonno all’ abbeveratoio vicino alla stalla.
Si stupiva poi, quando si coricava, di sentire il rumore delle foglie di faggio nel pagliericcio ad ogni mio movimento.
Sono state estate bellissime, di cui ha assimilato ogni istante che ha trascorso in quella comunità, rapito da abitudini secolari, con il tempo scandito dal suono delle campane, quasi sospeso in un mondo da fiaba. Ha condiviso la vita dei contadini di montagna, dei boscaioli, degli allevatori, dei casari.
Ha scoperto quanto fosse umile ma decorosa la vita di montagna, fatta di poche cose, di cui ci si doveva accontentare.
Per chi ci viveva era però una vita grama, fatta di un presente di lavoro duro e faticoso, ma con un futuro senza prospettive, per i più giovani. Quella generazione è stata l’ultima rimasta abbarbicata su quei pendii, è stata l’ultima, salvo poche eccezioni, che non ha vissuto l’emigrazione.
Nel frattempo, Leonardo ha provveduto a ristrutturare la casa dei nonni che ha ereditato. L’ha risistemata con cura, badando a non cancellare le evidenze di un trascorso che gli ha regalato così tante emozioni. In quella casa ci va tutti gli anni con la moglie. Ha imparato ad amare quel paese pieno di vita, che gli ha lasciato ricordi indelebili. Ci vanno volentieri anche i suoi figli. Però, nel frattempo, il borgo si è spopolato. Molti abitanti sono scomparsi, molti altri hanno continuato l’esodo verso la città più vicina o verso mete più lontane. È molto cambiato rispetto al borgo che conosceva da bambino.
Al posto di campi e prati ci sono case e, altrimenti, il bosco che avanza.
Una sera di fine estate Leonardo si trovavo là, in villeggiatura con la famiglia. I nonni erano morti da un pezzo. Fuori dall’ uscio di casa si scorgeva il borgo, disteso lungo la vallata, immerso in un silenzio surreale.
Il cielo era stellato. Fu così che gli venne spontaneo mettere per iscritto i pensieri che lo assalirono in quel momento e scrisse: “Una, due, tre.., le finestre illuminate in questa sera di fine estate si possono contare sulle dita di una mano. Molto meno dei lampioni che irradiano la loro luce fredda nelle contrade deserte. Molto, molto meno delle migliaia di finestre sparse nel mondo, oltre le quali vivono persone che hanno lasciato San Donato nel succedersi di generazioni, per convenienza, ma soprattutto per bisogno, e che saranno irrimediabilmente destinate a dimenticare, col tempo, il loro luogo d ‘origine.
Una ridda di pensieri ed una moltitudine di ricordi si accavallano nella mente e, alla fine, questi prendono la forma di una struggente nostalgia. Mi rivedo, nelle mattine d’estate, arrampicarmi col nonno su per i sentieri scoscesi, attraverso faggeti ed abetaie, fini ai pascoli d’ alta montagna, da cui iniziano a stagliarsi le rocce inconfondibili delle dolomiti, per sfalciare i prati. Mi rivedo ad accompagnare la nonna alla fontana con le lenzuola da lavare e attingere l’acqua da riportare in secchi sopra l’acquaio in cucina.
Quanta malinconia, ora, nel vedere fontane abbandonate, una volta generosi abbeveratoi per il bestiame, o prati incolti ormai rimboschiti, che erano campo di lavoro, teatro di sudore e fatica, momento di aggregazione e soprattutto fonte di sostentamento. Nel vedere vecchie stalle e fienili cadenti o trasformati, quali testimoni del mutato tenore di vita
dei proprietari, in confortevoli rifugi per qualche fugace week end, da chi ha ancora il paese nel cuore. Nel vedere il vecchio campanile che scandiva ai valligiani la quotidianità.
Il rintocco delle sue campane all’Ave Maria non sveglia più nessuno, perché nessuno ha più bisogno di essere svegliato, ed il vespro della sera, sembra quasi un lacerante lamento che va oltre la vallata, quasi un richiamo universale che vorrebbe raggiungere ciascuna delle persone dietro le mille finestre illuminate, a ricordare da dove provengono i loro geni.
Contrasti stridenti, che in realtà rappresentano naturali trasformazioni, indotte dall’ inevitabile trascorrere del tempo e, con esso, dai mutati riferimenti economici e sociali, ma che, non di meno, lasciano un malinconico senso di amarezza e di rimpianto nell’ animo di chi avrebbe voluto, in questo borgo di case, fermare il tempo, mentre, nel villaggio globale in cui viviamo, lo spazio ed il tempo sembrano non avere più dimensioni.
L’asfalto ha ormai da tempo coperto la grande strada bianca e polverosa ed ora anche gli ultimi sentieri, ed insieme sembra aver sepolto per sempre il ricordo del paese palpitante di vita, ricco di tradizioni e di valori, che sapeva regalare emozioni straordinarie ed irripetibili.
Nel frattempo, si è oscurata anche l’ultima finestra, in questa sera di fine estate.
Volgendo lo sguardo in alto, vedo i contorni del Monte Coppolo contro il cielo stellato.
Anche stanotte veglierà su San Donato.
E se penso che i suoi figli siano destinati a diventare orfani di questo luogo unico, inconfondibile, affascinante, mi si stringe forte il cuore”.