Giuseppe Gesano. Già ricercatore all’Università di Roma “La Sapienza”, poi professore associato di Demografia all’Università “Ca’ Foscari” di Venezia, infine dirigente di ricerca del CNR e direttore d’Istituto nel campo degli studi di popolazione; ora pensionato. Dedica parte del suo tempo alla scrittura creativa. Partecipa al Concorso 50&Più da diversi anni e nel 2017, 2021 e 2022 ha ricevuto la Menzione speciale della Giuria per la prosa. Vive a Roma.
Entrò nell’ampia hall circondato da tre donne: alla sua destra una donna anziana ancora nel pieno di tutta la sua autorità; alla sua sinistra una donna che pareva solo poco più giovane, abbigliata in modo disadorno e con un atteggiamento servile comprovato dal bagaglio che trascinava lei sola; dietro, ma controllata da frequenti occhiate dell’anziana, veniva una giovane donna formosa e di bella presenza, qualità che rimanevano apprezzabili nonostante gli abiti castigati che indossava.
La donna anziana – evidentemente la madre – sedette su un divanetto e lo fece accomodare accanto. Poi trasse dalla borsa dei documenti e li diede all’altra donna che, sistemato il bagaglio, disse: «Vaiu, Mammà», e si diresse verso l’ufficio Ricoveri.
Dopo pochi minuti ne uscì accompagnata dall’addetto al banco, che aveva in mano la fascetta di riconoscimento da stringere attorno al polso del ricoverando. Si aspettava di trovare un invalido, impedito nella gestione di sé da un qualche handicap, visto che l’età di quarantadue anni non giustificava la delega ad altri. Si trovò invece di fronte un uomo che, alzatosi in piedi, lo sovrastava di una buona spanna. Il suo aspetto, troppo bello e curato, risultava magnetico per gli occhi cerulei in un incarnato olivastro e i riccioli neri; gli conferiva però un che di femmineo, confermato dagli atteggiamenti rilassati e quasi languidi. Una volta chiesta conferma del cognome, nome e data di nascita l’impiegato gli mise al polso la fascetta e gli indicò il reparto di ricovero, il percorso per raggiungerlo e la procedura per esservi accolto.
Si riformò il drappello, ora in fila indiana: la madre in testa, poi lui, seguito dalla sorella con i bagagli e dalla giovane donna, che si poteva immaginare fosse la moglie. Incontrollabile ora per la posizione che occupava nella fila, lei si guardava attorno godendo degli sguardi di ammirazione maschile che andava suscitando nel suo procedere ancheggiante.
Trovarono la porta del reparto chiusa perché era troppo presto per le visite dei parenti. La madre suonò e diede al citofono le credenziali. Si presentò ad aprire un esile allievo infermiere, che venne travolto dall’entrata in massa dei quattro. Provò ad arginarli opponendo loro che una sola persona poteva accompagnare il ricoverato, mentre le altre avrebbero dovuto aspettare l’orario delle visite. Ciò nonostante l’avanzata dei quattro proseguì fino al bancone della caposala, la quale fulminò con uno sguardo l’allievo infermiere e, esaminate le carte, chiese al terzetto di donne: «Chi di voi – una sola – accompagna il malato in stanza?».
La domanda provocò lo sconcerto tra loro: la sorella, forte del possesso dei bagagli, sosteneva di dovergli sistemare lei il guardaroba; la moglie provò timidamente ad avanzare i privilegi che le venivano dall’intimità coniugale; alla fine la madre impose la sua indiscutibile primazia sulle altre due, alle quali non rimase che la ritirata, non prima, però, d’averlo abbracciato e baciato.
Finalmente la caposala ordinò al giovane allievo di accompagnare il ricoverato al suo letto e di farlo sistemare per i primi accertamenti diagnostici. Il terzetto si avviò per il corridoio mentre i bagagli rimanevano presso il bancone. Lui rivolse uno sguardo interrogativo al ragazzo e poi alla madre, la quale, visto che evidentemente il facchinaggio non rientrava tra i compiti degli infermieri, tornò a recuperare il trolley e la sacca che vi giaceva sopra.
La stanza era a due letti, con quello vicino alla finestra già occupato da un altro ricoverato in condizioni d’evidente sofferenza. Allo sguardo deluso del figlio la madre, senza nemmeno dargli il buongiorno provò a chiedere al malato: «Non potreste scambiare di letto con mio figlio? Perché lui soffre di tristezza se gli manca la luce… Tanto che vi cambia a voi, per come state?»
L’infermiere fece notare che lo scambio non era possibile, diede alcune disposizioni di massima e se ne andò. I bagagli furono aperti e cominciò la difficile sistemazione delle troppe cose portate negli spazi ristretti assegnati. La madre consegnò al figlio un pigiama e una vestaglia e lo invitò ad andare a cambiarsi. Lui entrò in bagno e ne uscì in un completo di seta a colori sgargianti, ai piedi delle pantofole che riprendevano tinte e disegni del pigiama e della vestaglia.
«Mioddio, comu sì beddu, figghiu miu!», non si trattenne dall’esclamare lei, e si precipitò in bagno a raccogliere gli indumenti che lui aveva lasciato sparsi dappertutto.
Fu messo a letto tra mille crucci della madre, alla quale nulla di quanto era disponibile sembrava adeguato alle esigenze di lui. Poi cominciò il via vai d’indagini cliniche e d’interrogatori diagnostici durante i quali veniva imposto alla donna di allontanarsi. Lei aveva provato a opporsi dicendo: «Ma io sono sua mātre, io!», e indicando il compagno di stanza mezzo addormentato aveva obiettato: «Unu sconusciuto pò accurriri a tuttu, mentre che io, chi u conosco da ‘na vita, vegnu cacciata fùora. Nun jè giusto!».
Nel frattempo lo smartphone di lui, in modalità ricezione Tweet, non faceva che cinguettare. Lui gettava un’occhiata e sorrideva compiaciuto. Non appena libero da impegni medicali rispondeva o addirittura chiamava in video chi l’aveva tweettato, così che il vicino fu costretto ad assistere alle smancerie che scambiò con due donne che al momento erano le sue amanti. La madre mostrava un’indulgenza orgogliosa per i successi erotici del figlio.
Non appena furono ammessi i parenti in reparto la stanza fu letteralmente presa d’assalto: si precipitarono dentro la sorella e la moglie come se non lo vedessero da mesi. La moglie gli si gettò addosso con trasporto baciandolo sulla bocca; la sorella, apprensiva, gli chiedeva con insistenza: «Stai bonu, Totò? Nenti ti serve, Totò? Tieni fami, Totò? Vajo a prenderti qualcōsa, Totò?»
Alla fine lui fece uscire la sua voce baritonale, molto strascicata: «Ehh… mi andrèbbi tanto ‘nu cornettu. Mi dissero chi súnno tanto bbüòni cca a Rròma… Ma haju stāri a díggiuno pi operārrmi domattína… Paziēnza.»
A un certo punto, preceduto dall’eco «Il Professore, il Professore» che avanzava nel corridoio, apparve sulla porta della stanza il primario col codazzo di aiuti, di assistenti, di specializzandi. La caposala, mostrata al Professore la cartella clinica, impose «Tutti fuori!» in un tono che non ammetteva repliche.
La madre non ebbe remore a rivolgersi direttamente al luminare: «Professōre, io la mātre sono. Mi faccia restare, ammë. Ho da sapère che ha, che gli farete e come starà ddòpo.»
Il professore guardò i suoi sottoposti con un sorrisetto di compatimento, poi si rivolse alla madre, mentre il suo sguardo abbracciava invece la giovane donna formosa e di bella presenza: «Cara signora, non lei, ma piuttosto la moglie deve sapere che operazione gli faremo e quali saranno i postumi… Avete aspettato troppo, dopo aver scoperto i primi segni del tumore. Ormai non si può che fare una cosa: l’orchiectomia bilaterale», e fece con due dita il movimento esplicito di una forbice che taglia qualcosa di pendulo. «Da cui conseguirà l’impotentia generandi ac coeundi, nonché il calo o financo la perdita totale della libido».