Quando viaggiare era un’avventura, girava il mondo dietro (e davanti) alla macchina da presa, per regalarci film e sceneggiati che hanno segnato la storia dello spettacolo cinetelevisivo. Da sette decadi sulla scena, il regista e attore genovese continua a sorprenderci.
Il nome di Giuliano Montaldo esercita, ovunque e su chiunque, un richiamo (e una stima) formidabile. Regista, anche per l’opera lirica, attore, sceneggiatore: il suo itinerario artistico risale alla pellicola in bianco e nero, attraversa il colore e procede sino al digitale. Il cineasta ligure ha diretto, tra gli altri, Gian Maria Volontè, Philippe Noiret, Klaus Kinski, John Cassavetes, Gena Rowlands, Nicholas Cage, Ingrid Thulin, Peter Falk, Charlotte Rampling, Burt Lancaster, Ann Bancroft, Rupert Everett.
La sua filmografia annovera solo autentici capolavori, che il tempo non riesce ad offuscare. Titoli memorabili, apparsi sul grande schermo mezzo secolo fa, attraggono cinefili e (aspiranti) addetti ai lavori ancora oggi. Di recente, ad esempio, è uscito per Distribuzione indipendente il documentario La morte legale, di Silvia Giulietti e Giotto Barbieri, che racconta i retroscena del film Sacco e Vanzetti, girato da Montaldo nel ’71. In tanti, poi, ricorderanno che, negli anni Ottanta, quando in Tv andava in onda il suo Marco Polo, le strade erano deserte.
Incontriamo Giuliano Montaldo nella sua casa, a Roma, la città che ne catturò, giovanissimo, il futuro. Mentre conversiamo arriva un dono, spedito dal Brasile. Lo scarta. È un collage – bello! – con tutte le locandine dei suoi film, usciti anche oltreoceano, che un affettuoso estimatore ha raccolto. Lo appoggia accanto ad una libreria – che lui chiama “il barattolificio” – stipata di premi, dall’alto in basso. Compresi il “Nastro d’Argento speciale” e il “David di Donatello” come miglior attore non protagonista, ricevuti l’anno scorso per l’eccellente prova d’artista che, ancora una volta, ha dato nel film Tutto quello che vuoi, di Francesco Bruni, liberamente ispirato al romanzo Poco più di niente di Cosimo Calamini, edito da Garzanti. Montaldo, nella storia, è Giorgio Gherardini, un poeta ottuagenario, ormai dimenticato, che ogni tanto smarrisce la memoria. Alessandro (l’attore Andrea Carpenzano), un ventiduenne trasteverino ignorante e turbolento, circondato da amici scioperati, accetta il lavoro di accompagnatore dell’anziano. I due appartengono a mondi (apparentemente) inconciliabili, ma alla fine la distanza si azzererà…
Maestro, sul set con quattro giovani attori (Andrea Carpenzano, Arturo Bruni, Emanuele Propizio, Riccardo Vitiello) è stato facile affiatarsi?
“È stata un’esperienza piacevole. Francesco Bruni ed io siamo stati entrambi docenti al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. Ho visto crescere i ragazzi come attori, giorno dopo giorno, e diventare sempre più consapevoli del loro ruolo. Insieme siamo stati disciplinatamente agli ordini del regista – ho finito col dimenticare di esserlo anch’io – in un clima di grande collaborazion”.
E nelle pause tutti chini sullo smartphone?
“No, nonostante ci sia chi le relazioni le fa passare sui Social, c’è chi riconosce il valore dei contatti umani. Mi hanno sommerso di domande. Volevano sapere di tutto”.
Per un giovane è difficile fare carriera nel cinema odierno?
“No, se fa sul serio. E lo vuole davvero. Ho ben impresso nei ricordi un macchinista romano a Cinecittà, quando se ne uscì così: «A’ Montà, ma tu davero voj fa’ er cinema? C’è la crisi. Pensace». Era il 1961”.
Com’è stato il suo inizio?
“Duro, ma vissuto con ardore. Al cinema ho fatto mille mestieri. Ero amico di un critico cinematografico del quotidiano Il Lavoro di Genova. Questi aveva un vice. Di film ne uscivano tanti, soprattutto il venerdì bisognava trovare il vice del vice. Fui nominato terzo critico. Mi mandavano a vedere i film più scassati. Tra questi anche L’ultimo dei mohicani. Tornato in redazione, feci la recensione più sintetica della mia breve vita di critico. «L’ultimo dei mohicani. Meno male che è l’ultimo!». I presenti risero come pazzi e mandarono subito il pezzo in stampa. Non fu dello stesso avviso il severissimo direttore che, arrabbiato, me lo fece riscrivere. Aggiunsi alcune note e chiusi con: «Buono il colore». Quel direttore era il futuro Presidente della Repubblica, Sandro Pertini. Trentadue anni dopo, lo incontrai al Quirinale. Mi riconobbe e mi chiese: «Finalmente hai imparato a scrivere?»”.
Ricorda il suo arrivo a Roma?
“Negli anni Cinquanta, Roma offriva tutto: il cinema, la possibilità di sognare. Tra Via Veneto e Piazza del Popolo incontravi Elio Petri, Giuseppe de Santis, Tonino Guerra, poi, se entravi da “Otello” (celebre ristorante), non mancava nessuno all’appello: Monicelli, Age, Scarpelli, Scola, Pontecorvo. Sembravamo tutti una grande famiglia”.
Oggi, no?
“Oggi ognuno è per sé, manca quell’amicizia, quella solidarietà che invece ha aiutato tanto le generazioni precedenti. Il cinema non è l’arte dell’individuo singolo. È l’arte della collettività e della condivisione”.
C’è un film che avrebbe voluto realizzare e non ha fatto?
“Tanti. Considero i film che ho pensato e non fatto dei sogni; dei bei sogni. Il sogno più importante che io abbia realizzato è stato quello di riuscire a vivere “a modo mio”, facendo sempre scelte che mi appartenevano”.
Regista giramondo
“Marco Polo”, un successo televisivo assoluto, andò in onda nel 1982. Fu venduto in 76 Paesi nel mondo. «Se l’impresa riuscì – racconta Montaldo – fu per lo spirito di sacrificio di tutti, cast e troupe, disposti a lavorare a lungo in assenza di comunicazione e senza contatto con le famiglie. Il primo ciak sotto la Grande Muraglia l’ho dato io, il brivido più grande, però, lo ebbi nel filmare la Città proibita, la stessa che si vede ne “L’ultimo imperatore” di Bertolucci, solo che noi arrivammo prima».
(Immagine apertura: Maria Laura Antonelli/AGF)
Tratto da 50&Più – Marzo 2019
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