«La storia ci ha insegnato tanto sulla fragilità umana, ma più che altro sul piano della guerra, dei conflitti che hanno creato distruzione, sottomissione, servitù, dove la cosa peggiore che veniva avvertita dalle popolazioni era il fatto di perdere i luoghi, il lavoro, la casa, il cibo e la vita. Adesso siamo in una situazione diversa perché il cibo è l’unica cosa che c’è, tant’è vero che si possono anche saccheggiare i supermercati con la certezza che il giorno dopo gli scaffali saranno di nuovo pieni»
Il professor Giovanni Battista Sgritta, docente emerito di Sociologia all’Università La Sapienza di Roma, traccia per 50&Più un’analisi di ciò che stiamo vivendo oggi in questa fase di crisi, diversa dalle precedenti.
Professor Sgritta, che idea si è fatto degli eventi che stiamo vivendo e dei cambiamenti che porterà questa pandemia?
Gli effetti cui stiamo assistendo rispetto a questo evento sono cumulativi: se andiamo a guardare indietro nel tempo recente, abbiamo avuto almeno tre momenti storici che hanno prodotto effetti molto simili a quelli che si stanno verificando oggi. Tutti ricorderanno l’11 settembre 2001, quando all’unisono si disse: “Nulla sarà più come prima”. Poi abbiamo avuto la crisi economica del 2007/2008, a pochissimi anni di distanza, una catastrofe sul piano delle condizioni di vita delle persone, che persero le case, i redditi, il loro “salvadanaio” del futuro, ossia i fondi pensione. Infine il terrorismo degli ultimi anni, che in qualche modo ha contribuito a dare continuità alla paura. La situazione di oggi è più complessa: questo Coronavirus è una pandemia con effetti molteplici e conseguenze sfaccettate. A differenza di epoche precedenti in cui l’impatto dell’evento riguardava tutti, non solamente alcune categorie, oggi si assiste ad una serie di conseguenze diverse che creano una molteplicità.
Quali sono gli aspetti sociali maggiormente toccati da questa crisi?
Innanzitutto la sicurezza, già messa in discussione negli anni passati: se c’è qualcosa che ha caratterizzato gli anni Duemila è stata proprio una crescente, iperbolica insicurezza, a partire da quella del lavoro, che ritroviamo e ritroveremo anche oggi. Dopo il 2007/2008, come Commissione italiana per la lotta alla povertà di cui facevo parte, decidemmo di fare un’indagine sugli effetti della crisi, a Torino, Roma e Milano. Da questa indagine venne fuori una cosa che non ci aspettavamo: le persone che avevano subito il contraccolpo maggiore del crollo economico non erano quelle al di sotto della soglia di povertà ma quelle appartenenti alla classe media, convinti di essere arrivati ad una condizione di benessere che sarebbe stata non solo permanente, ma anche trasmissibile ai figli. Da allora si è creata una fortissima insicurezza, anche rispetto alla formazione e ai titoli di studio acquisiti che non erano più garanzia di una vita migliore. Ora tante di quelle persone avevano investito in nuove attività e avevano saputo reinventarsi, ma in questa nuova fase rischiano una nuova stangata. L’altro problema riguarda la percezione del futuro, che ha cominciato a venir meno quando il welfare ha smesso di occuparsi dei giovani. Oggi con questa pandemia riguarda più che mai anche gli anziani. Si dice che i senior sono quelli che hanno la vita alle spalle, ma non è vero, perché la vita è quella che si ha davanti, ciò che si guarda indietro è la narrazione. Ma si fanno i conti con l’oggi, e questo oggi non solo continua a chiedere di occuparsi dell’aiuto delle famiglie, delle generazioni successive, ma porta l’angoscia della malattia.
Le relazioni sociali: ci sarà un cambiamento in positivo e saranno apprezzate di più proprio per l’isolamento forzato?
Oggi raccontiamo di persone che si incontrano a distanza sui balconi, che ritrovano forme di condivisione, ma questi sono gesti apotropaici, che servono ad esorcizzare la paura. In realtà siamo un Paese con una scarsa socialità, poco senso civico e molto egoismo. Lo raccontò bene già Leopardi a suo tempo. Questa epidemia ha dato un colpo durissimo ad una socialità fragile. Pensiamo soprattutto a chi sulla socialità fa conto per l’assistenza e la sopravvivenza, come gli ultimi della società, le persone senza casa, senza fissa dimora, coloro che sono affetti da malattie gravi. Finora potevano contare sull’attenzione di associazioni, volontari, di una comunità, e oggi le difficoltà nel garantire una continuità a questo aiuto si sono moltiplicate, perché il Coronavirus ha abolito la promiscuità. La speranza è che non ci sia una totale assuefazione ad un livello di vita dove non solo la sicurezza è precipitata, ma anche il livello di cura cali pericolosamente: gli ospedali al momento hanno rinviato tutto ciò che non è urgente, e le persone seguite per altri motivi che non riguardano il virus rischiano di tenersi addosso anche la paura delle cure mancate. Agire senza attendere le emergenze deve diventare la priorità: pensiamo alla telemedicina, di cui si parla dagli anni Novanta ma che concretamente non è mai diventata uno strumento di prossimità, non rimandiamo più i servizi che in situazioni come quella di oggi avrebbero sicuramente aiutato.
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