Rappresentano una delle fasce di popolazione più colpite dalla pandemia. La mancanza di rapporti sociali reali, le paure legate al contagio e le restrizioni hanno creato una generazione che, seppur silenziosamente, chiede aiuto per la sua stabilità psicologica
La pandemia ha messo a dura prova gli adolescenti: le loro reazioni rispetto all’isolamento e alla trasposizione in rete di tante attività che nella vita quotidiana prima del Covid si svolgevano in presenza, sono state spesso sottovalutate. La Fondazione Soleterre, insieme all’Unità di ricerca sul trauma dell’Università Cattolica di Milano, ha promosso un’indagine per approfondire le risposte comportamentali, emotive e relazionali dei più giovani messe in campo in questi due anni, e i dati sono stati presentati alla fine del 2021.
Su un campione di 150 ragazzi fra i 14 e i 19 anni, ai quali è stato sottoposto un questionario, è emerso che il 12% degli intervistati non si sente in forma (il 2,7% per nulla e il 9,3% poco), il 36% è triste (il 2% sempre, il 2,6% molto spesso, l’8,7% spesso e il 22,7% abbastanza), il 40,7% ha difficoltà a dare un senso a quello che prova (il 5,4% quasi sempre, il 10% molte volte e il 25,3% circa la metà delle volte).
C’è anche chi dichiara di non essere in grado di controllare il proprio comportamento quando è turbato (il 34%), di arrabbiarsi con se stesso (il 50%), di fare fatica ad addormentarsi (il 34,7%) e di volersi fare del male (17,3%).
Il Covid e tutto ciò che ne è seguito, in termini di paure legate al contagio, alla perdita, ma anche alle restrizioni, è entrato a far parte della vita e dei pensieri degli adolescenti, che nel 64% dei casi affermano anche che se questo evento traumatico non fosse accaduto, probabilmente sarebbero persone diverse, mentre oggi è diventato parte della propria identità (per il 69,3% di loro).
«L’adolescenza è l’età della sperimentazione, dove si deve avere una base sicura, un luogo dove tornare, ma anche la possibilità di sperimentare, di provare tanti ruoli identitari per conquistare il proprio – spiega a 50&Più Damiano Rizzi, presidente di Fondazione Soleterre -. Purtroppo la pandemia ha fatto sì che i ragazzi non avessero più la condizione di esplorare per poi ritornare a casa, ma sono stati costretti a restare in un posto e a relegare l’esplorazione all’esclusiva modalità virtuale».
Quanto ha inciso sulla psiche dei giovani questo passaggio quasi totale dall’offline all’online?
Ai giovani è stato detto che ciò che si faceva in presenza si sarebbe potuto anche fare a distanza, ma non è stata fatta una riflessione specifica in merito. Eppure ci sono studi che dimostrano come la nostra mente processi le informazioni in modo diverso, se ci si trova in presenza oppure davanti a uno schermo. In quest’ultimo caso l’affaticamento risulta tre volte superiore. È una soluzione di emergenza ma non si può pensare di sostituire completamente le attività dal vivo, perché poi ci ritroviamo di fronte ad adolescenti, ma anche adulti in smart working, tre volte più stanchi rispetto alla normalità.
Spesso si ripete che i giovani sono i più abituati al mondo digitale, perché nati in un’epoca già caratterizzata dall’interconnessione e dall’uso continuo di dispositivi digitali: eppure i dati raccolti nel sondaggio parlano di una qualità della vita che per tanti in questo biennio è peggiorata. Perché?
I giovani sono i dimenticati di questa pandemia. Non c’è stato un pensiero specificatamente dedicato a loro, che si trattasse di trasporti, di didattica, di salute mentale. E se è vero che i ragazzi crescono comunque, dal punto di vista biologico, per lo sviluppo della mente la relazione con l’altro è fondamentale. Anche sotto lo stesso tetto, la maggior parte degli adolescenti lamenta la quasi totale assenza dei genitori, e un altro dato importante emerso dall’indagine è che quasi il 70% non riesce ad attribuire un senso a quello che prova. E non è un caso, perché tutti noi diamo un significato alle cose nella misura in cui gli altri lo fanno insieme a noi. Invece oggi la comunicazione delle emozioni, lo scambio con l’altro, anche in famiglia, è diventato qualcosa di eccezionale, perché ognuno è abituato a soddisfare le proprie esigenze senza tollerare l’attesa, le divergenze, le esigenze dell’altro. In adolescenza si vive il lutto della propria identità infantile per acquisire quella adulta, per questo c’è bisogno delle figure di riferimento.
La mancanza di esplorazione all’esterno e la carenza di figure adulte di riferimento possono essere un fattore di rischio per manifestazioni più gravi del disagio come i fenomeni di autolesionismo?
Il primo strumento che si frappone fra sé e gli altri è il proprio corpo, e se gli altri non si trovano, non ci sono, si “attacca” il corpo: può trattarsi di auto isolamento, fino ad arrivare a situazioni estreme come l’autolesionismo o ideazioni suicidarie. In questo protocollo realizzato con l’Università Cattolica di Milano ho voluto inserire la “scala della depressione”, perché l’età della adolescenza è soggetta a tanti movimenti depressivi, utili a fare i conti con le cose. È importante a quell’età mettersi in una condizione depressiva della mente, che non vuol dire essere depressi, ma vivere il lutto dell’identità infantile ed elaborare ciò che si vive: se ci si ritrova da soli non si può condividere e questo processo non avviene. E oggi ci troviamo di fronte a soggetti giovani in una situazione di pericolo identitario. L’adolescenza è l’età delle tappe che portano all’emancipazione, con le gite scolastiche, le prime esperienze di relazione, il compimento dei 18 anni: tutto questo con la pandemia è cambiato, e i ragazzi sentono di non aver vissuto esperienze fondamentali, oltre ad avere la sensazione che gli adulti non siano in grado di capire. Qui il compito del genitore è fondamentale, ed è quello di lasciarsi “distruggere” dai propri figli, facendogli capire di essere in grado di affrontare questo processo. Altrimenti sentiranno di non avere quel luogo sicuro al quale tornare, e dal quale ripartire per continuare ad esplorare.
C’è una sottovalutazione della salute mentale secondo lei, e in particolare di quella degli adolescenti?
Sì, abbiamo un’impostazione materiale che privilegia altro rispetto alla cura della mente. Nessuno ha voluto la pandemia, ma è impensabile che ancora oggi l’80% dei bambini e degli adolescenti non abbia ancora accesso al supporto psicologico: anche se si sta creando una sensibilità attorno a questo tema, mancano le infrastrutture e la cultura a riguardo. Basti pensare che il tempo medio per avere una diagnosi di disturbo dell’apprendimento è di due anni, anche in città come Milano. Abbiamo ancora ospedali dove veniamo chiamati come psicoterapeuti per casi di tentato suicidio di adolescenti e scopriamo che non hanno mai visto uno psicologo prima. Ecco, una società che non è interessata alla parte più giovane, che rappresenta l’apertura al nuovo, il futuro di una comunità, è una società riversata su se stessa.
Come Fondazione Soleterre avete attivato un servizio di supporto psicologico, a partire dai pazienti ricoverati nei reparti Covid, dai loro familiari e dal personale sanitario. Poi il servizio è stato esteso: come funziona oggi?
L’esperienza è partita nel marzo del 2020 dal Policlinico San Matteo di Pavia, e poi è stata estesa prima alla popolazione delle province lombarde più colpite e infine a tutta Italia, grazie ad una rete nazionale di circa 80 psicologi e psicoterapeuti. C’è un numero che si può contattare (il 3357711805), dal lunedì al venerdì, dalle 9.00 alle 18.00, attraverso il quale raccogliamo la richiesta e cerchiamo un terapeuta nella zona di prossimità della persona che ne ha bisogno. L’obiettivo è di garantire almeno otto incontri con tariffe calmierate o in modo totalmente gratuito per chi non ha disponibilità economica. Tutto è realizzato con fondi privati, attraverso i quali cerchiamo di ridare tempo e spazio alla salute della mente.
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