Tramontano i vecchi stereotipi: nella sfida tra cervelli, il gap del quoziente intellettivo tra le due generazioni è ormai appianato.
I giovani sono più smart degli anziani? Decisamente no. Anche se nel suo saggio del 1940, “Apologia di un matematico”, G.H. Hardy affermava che la matematica era “un gioco da giovani” e che l’abilità diminuiva invecchiando. Per estensione, la saggezza convenzionale vorrebbe far credere che lo stesso valga per la scienza, principalmente per le cosiddette scienze “dure” come la chimica, la biologia e soprattutto la fisica. Oggi una ricerca condotta dall’inglese Stephen Badham, psicologo dell’università di Nottingham, dimostra che si tratta solo di un luogo comune, dal momento che le differenze cognitive tra le generazioni si stanno riducendo. Questo non perché stiano peggiorando le capacità mentali dei giovani ma perché il quoziente intellettivo degli anziani è migliore rispetto al passato.
Come si misura il quoziente intellettivo
L’invecchiamento cognitivo nei test sul quoziente intellettivo (QI test), spiega Badham su The Conversation, si misura confrontando i cervelli dei giovani tra 18 e 30 anni con quelli degli anziani di 65 o più anni. I primi normalmente ottengono un punteggio maggiore in determinati campi, come la memoria e la velocità di elaborazione. Ci sono però alcuni test che gli anziani superano meglio, come la comprensione della lettura e del vocabolario. Dagli anni ’60 ad oggi però i deficit legati all’età sono diventati sempre più piccoli e questo lo ha incuriosito, spingendolo ad indagare, trovando una risposta convincente.
La scoperta
Nella sfida a colpi di cervello tra giovani e anziani bisogna tener conto le due generazioni sono cresciute in tempi diversi (dalla guerra mondiale all’era di Internet), con diversi livelli di istruzione, di assistenza sanitaria e di alimentazione. Detto ciò, molte ricerche mostrano un generale miglioramento del QI nel XX secolo. Ciò significa che le generazioni nate dopo sono più capaci dal punto di vista cognitivo rispetto a quelle nate prima. Vi sono prove sempre più evidenti che negli ultimi 20 anni gli aumenti del QI dei giovani adulti si sono stabilizzati. Contemporaneamente, nei test dagli anni ’60 ad oggi gli over 65 (tolta la parentesi del Covid) si stanno dimostrando sempre più brillanti e capaci. Questi due elementi potrebbero essere alla base del risultato attuale, vale a dire che le menti dei trentenni e dei settantenni attuali si stanno allineando.
Il “pareggio” nel gap del quoziente intellettivo
Scartata la causa genetica (qualche decennio è insignificante per l’evoluzione), il pareggio per Badham nasce dallo stile di vita. Gli anziani di oggi stanno beneficiando di molti dei fattori positivi che in passato riguardavano i giovani adulti. In primis, la scolarizzazione – aumentata negli anni ‘60 -, poi la salute e l’alimentazione. Allo stesso tempo, il progresso intellettivo nei giovani sembra aver raggiunto un tetto oltre il quale non si registrano significativi miglioramenti. I motivi non sono del tutto chiari, ma l’opinione di Badham è che esista un limite fisiologico a fattori come l’istruzione, la nutrizione e la salute possono migliorare le prestazioni cognitive.
Il valore della ricerca
I dati, sottolinea il ricercatore, hanno importanti ricadute nel campo della ricerca sulle demenze. È possibile infatti che un anziano di oggi, se nei primi stadi della malattia, possa superare un test di rilevamento progettato 20 o 30 anni fa. In definitiva, questa scoperta porta a ripensare – in maniera positiva – il concetto stesso di invecchiamento. Gli esempi contemporanei in questo senso non mancano: scienziati e ricercatori come David Attenborough, Jane Goodall e Stephen Hawking hanno dato il loro prezioso contributo dimostrando sul campo che il cervello non ha età.
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