Testimoni di una delle pagine più brutte della Storia, i bambini che scamparono all’Olocausto – ora adulti – vivono per raccontare quell’orrore. Perché nessuno, mai, possa dimenticare.
Erano piccoli e fu loro letteralmente rubata l’infanzia. Sono quei bambini e ragazzini cui toccò una delle pagine più buie della storia recente: la deportazione nei campi di concentramento. Secondo la storiografia contemporanea, si considera furono almeno un milione e mezzo i bambini uccisi dai nazisti e dai loro sostenitori.
A ricordare in eterno la loro condizione, le parole di Elie Wiesel, scrittore e premio Nobel per la Pace nel 1986, rinchiuso ad Auschwitz all’età di 15 anni. «Mai dimenticherò quel fumo. Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto. Mai dimenticherò quelle fiamme che bruciarono per sempre la mia Fede. Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai».
Erano ebrei, rom, disabili, slavi ma erano soprattutto bambini. E si fatica a leggerne le storie, come altrettanto doloroso è raccontarle. Con coraggio e senso di trasmissione della memoria, lo hanno fatto alcuni di loro – superstiti -, testimoni di un incubo inimmaginabile, specie se vissuto in così tenera età.
Ormai adulti: raccontare per non dimenticare mai
Il 27 gennaio si celebra la ricorrenza internazionale della Giornata della Memoria, che commemora le vittime dell’Olocausto e ci dà modo di tornare col pensiero e la partecipazione emotiva a quei fatti: uno dei drammi più grandi e terribili della storia dell’intera umanità.
Le vittime minori del III Reich morirono nei campi di sterminio, altri nei lager, molti ancora nei ghetti, dove la fame e il tifo decimarono migliaia di persone. Chi sopravvisse, come appunto Liliana Segre o Elie Wiesel, non ha mai smesso di ricordare, in favore di tutti coloro che hanno perso la vita – giovani e meno – e perché mai un abominio simile torni a ripetersi.
I bambini e l’Olocausto: un milione e mezzo incontrò la morte
Secondo l’Enciclopedia dell’Olocausto, «Più di un milione di queste giovani vittime erano – appunto – ebrei, mentre altre decine di migliaia erano rom, polacchi e sovietici che vivevano nelle zone occupate dalla Germania, nonché bambini tedeschi con handicap fisici e/o mentali provenienti dagli istituti di cura. Le possibilità di sopravvivenza degli adolescenti con un’età compresa tra i 13 e i 18 anni – sia ebrei che non ebrei – erano invece maggiori, in quanto potevano essere utilizzati nel lavoro forzato». Quasi tutti coloro che perirono nei campi, furono sterminati in camere a gas o finirono uccisi da stenti e malattia.
Momento di caduta libera verso l’abisso fu di certo la promulgazione delle Leggi razziali. La condizioni dei bambini non ariani nella Germania nazista si fece infatti più drammatica nel 1933, quando Hitler sale al potere e, due anni dopo, promulga le prime Leggi razziali, copiate poi in Italia da Benito Mussolini. Secondo ricostruzioni che, però, potrebbero essere anche per difetto, solo in Italia furono più di 4mila i minori delle elementari ad essere allontanati dalle scuole pubbliche del Regno d’Italia. L’unica ragione, essere ebrei.
La storia, purtroppo, per tutti loro è assai simile. I piccoli arrivavano nei campi di concentramento dopo aver viaggiato molto a lungo in treni colmi di gente. Nessuno sapeva esattamente la destinazione che, invece, avrebbero scoperto solo all’arrivo. La ferrovia giungeva fin dentro questi luoghi di deportazione e morte, dove i bambini venivano spesso allontanati dalle famiglie. Una volta lì, finivano all’interno delle baracche, coperti di indumenti assolutamente non adeguati alle temperature, tra filo spinato e l’odore nauseabondo e inquietante dei forni crematori.
Il dottor Mengele e i folli esperimenti
I più anziani, molte donne e gli stessi bambini, non di rado, venivano costretti direttamente ai forni, mentre i maggiori di dodici anni venivano inviati ai lavori forzati. Molti di coloro che non venivano immediatamente uccisi, però, erano destinati a giorni terribilmente amari. Per molti di loro scattavano i tristemente noti esperimenti del criminale dottor Mengele che, ad Auschwitz, usò come cavie circa 3mila bambini (ne sopravvissero appena 200). Ma finirono cavie anche alcuni piccoli detenuti a Theresienstadt (Terezín) – altro campo di concentramento – che, nel luglio del 1944, furono selezionati per gli esperimenti.
Terezín si trovava in territorio cecoslovacco e rimase in attività fino alla liberazione, l’8 maggio del 1945: da lì transitarono 140mila prigionieri. Quindicimila erano bambini, tra loro molti neonati. E sono proprio alcuni di questi neonati al centro del libro Survivors: Children’s lives after the Holocaust di Rebecca Clifford, storica statunitense, le cui storie – per certi versi – hanno dell’incredibile. In tanti, fra i bambini che lei racconta, hanno saputo solo in età matura cosa abbiano esattamente vissuto nella loro prima infanzia. Tra di essi, un uomo che venne a sapere del campo di concentramento solo quando – alle prese coi documenti del matrimonio – scoprì la propria storia. I genitori adottivi lo avevano cresciuto senza fare alcun riferimento al passato del bambino che, nato a Vienna nel 1942, era finito quasi subito nel campo di concentramento: quello appunto di Theresienstadt.
Da Anna Frank alle sorelle Bucci: i racconti per non dimenticare mai
Ma se conosciamo quegli anni terribili grazie agli occhi di una bambina è proprio per aver letto le parole atroci e indimenticabili di Anna Frank, il cui Diario racconta – con la viva voce di una ragazzina – l’orrore dello sterminio degli ebrei, il tentativo disperato di scongiurare la deportazione e quindi l’epilogo nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, e dunque in quello di Bergen-Belsen.
Ferite difficilmente rimarginabili, anche per i sopravvissuti, che sono – in questi giorni di ricordo di quanto accaduto – al centro di incontri con le scuole e in tutti quei luoghi che hanno fatto della Memoria perno del loro agire. Tra le figure sicuramente più rappresentative di quegli anni, ci sono le sorelle Andra e Tatiana Bucci – autrici, peraltro, del libro edito Mondadori, Noi, bambine ad Auschwitz. La nostra storia di sopravvissute alla Shoah. Loro, come Liliana Segre, continuano a ricordarci quanto l’orrore abbia toccato anche i più piccoli. Scambiate per gemelle, per via della loro notevole somiglianza, furono risparmiate a una immediata uccisione nelle camere a gas. Gli esperimenti nei campi di sterminio, infatti, puntavano spesso alle coppie di gemelli.
Secondo il loro stesso racconto, stettero ad Auschwitz-Birkenau per 11 mesi – dal marzo 1944 al gennaio 1945 – e, pur di sopravvivere, si adattarono alle condizioni del campo. Convissero, dunque, con stenti, paura, freddo e fame, separate dalla madre, che scoprirono essere sopravvissuta solo nel 1946. Anche loro furono costrette all’interminabile viaggio nei treni della deportazione prima di giungere appunto in Polonia. Oggi, hanno rispettivamente 85 e 83 anni.
Ma tra i bambini sopravvissuti, ci furono anche personaggi come François Englert, fisico, e il chimico nonché scrittore Roald Hoffmann, entrambi poi divenuti Nobel, rispettivamente per la Fisica e per la Chimica. Il secondo, nell’arco degli anni, raccontò come riuscì a fuggire con la madre da un campo di concentramento nel 1939. Sorte sempre complessa anche per lo psicologo Daniel Kahneman (Nobel per l’Economia nel 2002) e Imre Kertész, scrittore e Nobel vent’anni fa: fu deportato quindicenne – come Elie Wiesel – ad Auschwitz e poi trasferito a Buchenwald, dove fu liberato nel 1945.
LA STORIA NEI LIBRI
Esistono in commercio numerosi libri che raccontano la condizione dei bambini durante le deportazioni. Alcuni sono libri prettamente per l’infanzia; altri, più rivolti agli adulti. Tra quelli adatti agli studenti delle scuole primarie, c’è senza dubbio Il giorno speciale di Max, di Sophie Andriansen e con le illustrazioni di Ilaria Zanellato. Racconta la storia Max, che un giorno, improvvisamente, si trova costretto a vivere in un mondo che sta cambiando, con una stella d’oro ben evidente sul petto. Nelle pagine, si parla di discriminazione e rastrellamento, tutti concetti che, però, nessuno spiega a Max, fino al momento in cui, in casa Geiger – la sua casa – arrivano i tedeschi. È il 16 luglio del 1942.
Altro libro da segnalare è sicuramente L’amico ritrovato di Fred Uhlman. Racconta la storia di un’amicizia tra ragazzini nella Germania degli anni Trenta. Esce per la prima volta nel 1971 e descrive le vicende di Hans Schwarz, ragazzino ebreo di famiglia colta e borghese, e di Konradin von Hohenfels, di estrazione nobiliare. Tra loro nasce un’amicizia esclusiva che si scontra, però, con gli anni terribili del regime nazista.
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