L’esclusione e l’isolamento dei secoli precedenti, l’emancipazione e il ritorno alla libertà durante l’Ottocento, le leggi razziali in Italia e poi la retata a Roma nell’ottobre del ‘43. Con il tempo il “ghetto” è divenuto il simbolo controverso dell’esistenza ebraica.
C’è chi ha definito l’esperienza del ghetto “un episodio” nella storia del popolo ebraico. In realtà questo “episodio” è stato lungo cinquecento anni. Ben altro, dunque, che un semplice momento. Se poi ci si ferma a riflettere sul valore che la parola “ghetto” ha assunto nel tempo, tutto diventa più chiaro. Partendo proprio da questa esperienza, da luogo fisico di costrizione il ghetto è passato ad indicare qualsiasi forma di segregazione materiale e mentale. Perché rappresenta l’opposto della libertà, della dignità, dell’espressione e dell’uguaglianza degli individui.
La nascita dei ghetti in Italia
Nel nostro Paese, almeno ufficialmente, la storia dei ghetti sembra iniziare nel 1555. Più precisamente il 15 luglio del 1555, data esatta in cui papa Paolo IV emette la bolla Cum nimis absurdum. Da quel momento le comunità ebraiche residenti nello Stato Pontificio sono sottoposte ad una serie di pesantissime limitazioni. A cominciare dalla discriminazione, pericolosa e sempre presaga di violenza, di doversi identificare in modo visibile. Chi era ebreo infatti doveva indossare un distintivo turchese, così come non poteva possedere beni immobili.
Oltre a queste e altre limitazioni la bolla stabiliva l’istituzione di “spazi” in cui le comunità ebraiche avrebbero dovuto vivere e svolgere le loro attività. Fu questo che portò alla creazione del ghetto di Roma come di numerose realtà dello stesso genere. Sull’onda della bolla papale, tra il XVI e il XIX secolo, sorgono ghetti in molte altre città italiane.
Dal quartiere ebraico al ghetto
Prima dell’istituzione dei ghetti chi professava la religione ebraica era relegato in un’area ben precisa del centro abitato. Si trattava di un’imposizione ma avveniva anche per motivi pratici: i membri della comunità ebraica preferivano vivere tutti insieme nei pressi delle loro attività (sinagoga, macellaio, scuola, etc.). Si trattava di quartieri ebraici a tutti gli effetti, le cui differenze con il ghetto però erano sostanziali, a cominciare dal fatto che quest’ultimo era una realtà chiusa.
Proprio come il ghetto di Venezia, che sembra aver dato il nome alle altre realtà di questo tipo. Geto o getto infatti era il termine veneziano con cui si indicava un’antica fonderia esistente vicino il quartiere ebraico nella città lagunare. Ai primi del XVI secolo la comunità ebraica veneziana era una società molto visibile, attiva, intensamente dedita ai commerci con l’Oriente. Ma all’improvviso, nel 1516, il governo della città stabilì la chiusura degli ebrei in un quartiere speciale, istituendo il primo ghetto della storia.
Da Nord a Sud, gli ebrei emarginati nel cuore delle città
Dal ghetto non si entrava e non si usciva dal tramonto sino all’alba. Gli ingressi erano dotati di cancelli, sorvegliati da ufficiali di turno e chiusi dall’esterno. Chi vi abitava era pesantemente limitato negli spostamenti, perché il ghetto come tale accresceva le distanze, escludeva, imprigionava.
Dopo Paolo IV il ghetto si diffuse soprattutto nel Centro-Nord d’Italia. D’altronde, a causa dei continui decreti di espulsione, al Sud le comunità ebraiche erano ormai praticamente assenti. Lì dove si diffusero, in alcuni casi (pochi), gli ebrei riuscirono a ritardare, se non ad evitare, l’istituzione di questa realtà limitandone, per quanto possibile, le restrizioni. In Piemonte, ad esempio, subentrarono più in là nel tempo.
A Livorno e Pisa non esistevano veri e propri ghetti. Si poteva parlare di un “volontario aggregato” di persone. In particolare Livorno, fin dalle origini, ha avuto un’intensa e importante storia di libertà, accoglienza e tolleranza. Il suo essere una città portuale, di continuo passaggio, l’ha resa cosmopolita, illuminata. Motivo per cui è stata anche l’unica, persino durante il fascismo, a non relegare la comunità ebraica in un ghetto.
Dall’emancipazione dell’Ottocento alla leggi razziali
Verso la fine del Settecento gli ideali della Rivoluzione francese fanno vacillare la realtà dei ghetti con tutto il loro carico di esclusione. Da allora in poi è un alternarsi di vicende, di alti e bassi, lungo la strada dell’emancipazione: qualche ghetto sparisce, alcune restrizioni e forme di emarginazione ritornano.
In Italia, nella seconda metà dell’Ottocento, i ghetti cedono il passo e sul finire dello stesso secolo il cammino della definitiva parità di diritti sembra a buon punto. Ora gli ebrei sono liberi di abitare dove vogliono, di esercitare la professione che desiderano, di andare all’università. Molti ghetti sono abbandonati. Alcuni cadono nel degrado, altri restano il centro della vita delle comunità ebraiche locali ma senza più alcuna imposizione. Sull’onda del risanamento dei centri storici delle città italiane, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, diversi ghetti sono interessati dallo stesso fenomeno.
Ma il sogno di una piena libertà, senza emarginazione, si infrange nuovamente verso la fine degli Anni ’30 dello scorso secolo. L’11 novembre del 1938 il Corriere della Sera pubblica in prima pagina una notizia che riporta indietro di secoli l’intera comunità ebraica nel nostro Paese. Il Consiglio dei Ministri ha approvato le leggi per la difesa della razza. L’Italia diventa un grande ghetto dai muri invisibili, sbarre non percepibili nell’immediato ma che separano ormai gli ebrei dal resto degli italiani. Le nuove leggi vietano loro una grande quantità di cose, tra cui frequentare le scuole pubbliche, di lavorare nelle pubbliche amministrazioni, di militare nei corpi dell’esercito, persino di possedere un apparecchio radio.
16 ottobre 1943, la retata nazista nel ghetto di Roma
Il 10 settembre 1943, all’indomani dell’occupazione nazista di Roma, Kappler ricevette un messaggio di Heinrich Himmler dalla Germania. Per quest’ultimo l’armistizio dell’8 settembre imponeva di risolvere nell’immediato il “problema ebraico” in Italia. Kappler cominciò allora a tessere la sua tela di inganni e già dal 26 settembre intimò alla Comunità ebraica romana di consegnargli almeno 50 chilogrammi d’oro entro trentasei ore. In cambio nessuno sarebbe stato deportato in Germania.
L’oro richiesto venne consegnato due giorni dopo, ulteriore motivo per cui la retata del ghetto apparve del tutto inaspettata. Era sabato quel 16 ottobre 1943, Shabbat per gli ebrei, giorno del riposo. Gli uomini della Gestapo iniziarono il rastrellamento alle 5.30 del mattino: dapprima furono bloccati gli accessi stradali, poi evacuati uno alla volta tutti gli isolati. I soldati tedeschi si concentrarono su via del Portico d’Ottavia, cuore del ghetto, e sulle strade vicine.
Non ci fu pietà per alcuno. Neppure ad anziani, malati, invalidi fu risparmiata la brutalità di essere scaraventati fuori delle abitazioni. Tra il pianto di bambini terrorizzati e donne che imploravano pietà, tutto si concluse chirurgicamente intorno alle 14. Le 1259 persone rastrellate, molte ancora vestite per la notte, furono trasportate al Collegio Militare di Palazzo Salviati in via della Lungara, a poca distanza dal Ghetto. Furono lasciate lì, nei locali e nel cortile del collegio, per circa trenta ore, uomini e donne separati, in condizioni di totale disagio. Dopo il rilascio di poco più di 200 di loro, 1.023 vennero mandate ad Auschwitz. Soltanto in 16 torneranno dal campo di sterminio. Tra loro c’era Settimia Spizzichino, morta nel 2000, unica donna sopravvissuta al rastrellamento del ghetto romano.
Nella Giornata della Memoria, la testimonianza di Samuel Modiano al Museo Ebraico di Roma
Aveva solo 13 anni quando fu stipato nel buio soffocante di un vagone insieme a tanti altri ebrei. Giorni prima aveva viaggiato a lungo, nella stiva di un vecchio mercantile, in condizioni disumane dall’isola di Rodi al Pireo. Una volta sbarcato era iniziata per lui come per gli altri la seconda parte di un lungo viaggio verso la morte. Il treno piombato su cui era stato caricato era diretto al campo nazista di Birkenau.
Lui è Samuel Modiano e oggi ha 91 anni. È uno dei pochissimi superstiti dell’Olocausto italiano, sopravvissuto al campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, ma anche uno dei più attivi testimoni della Shoah.
Durante l’internamento Modiano ha sfiorato più volte la morte. Dapprima con la selezione operata da Josef Mengele: era destinato alla camera a gas, ma il padre Giacobbe riuscì a ricondurlo tra le file dei superstiti. In un’altra occasione, selezionato per il forno crematorio e in attesa della camera a gas, a salvarlo fu l’arrivo di un trasporto di patate e di un ufficiale delle SS che necessitava di manodopera per scaricarlo. Nel campo di concentramento perse sia la sorella Lucia che il padre.
È dal 2005 che Modiano tiene vivo il ricordo della sua esperienza tra i ragazzi delle scuole. Nel 2013 ha pubblicato Per questo ho vissuto (Rizzoli), un libro di memorie su Auschwitz in cui spiega cosa significhi ricominciare a vivere dopo gli orrori del campo di concentramento. La sua storia ha ispirato molti docu-film come L’Amore dopo la tempesta (2014), Tutto davanti a questi occhi (2018), Amici per la vita (2018), L’Uomo di Rodi (2020).
Lo scorso 26 gennaio, intervistato durante una diretta Facebook organizzata dal Museo Ebraico di Roma, Modiano ha ripercorso la sua vita prima delle leggi razziali, l’infanzia sull’isola di Rodi, il suo rapporto con i genitori, i ricordi della madre e della comunità sino a giungere alla deportazione, all’esperienza dell’internamento, alla tragedia della Shoah.
«Si può spiegare, ma arrivare a capire esattamente quello che è stato è difficile», ha detto nel corso di un’intervista carica di ricordi struggenti per la sorella e per il padre. Decenni dopo la voce di Modiano si spezza pensando a tutti quei gesti di generosità, di attenzione, di solidarietà in un luogo in cui c’era solo amarezza, odio, sofferenza perché – come ha affermato – «bisogna ricordare coloro che non ci sono più».
Giornata della Memoria
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