Michele Gillani. Vive a Vercelli. Ha frequentato corsi di scrittura creativa presso l’Unipop di Vercelli pubblicando racconti brevi. Nel 1997 ha pubblicato il romanzo: “L’antro di Tiobotas” e nel 2010 il romanzo “Don Romàn”. Partecipa al Concorso 50&Più per la quattordicesima volta; nel 2008 e 2009 ha vinto la Menzione speciale della Giuria per la prosa, nel 2010 la Farfalla d’oro per la prosa e nel 2018 e 2019 la Segnalazione speciale della Giuria sempre per la prosa.
Don Modesto lo era, non solo di nome ma, anche di fatto. Era, dunque, una persona quasi insignificante: basso di statura, paffutello con tendenza alla pinguedine tanto che, nel vederlo camminare su un terreno lievemente inclinato, si sarebbe temuto che, da un momento all’altro, potesse perdere l’equilibrio e rotolare verso il basso. Trasandato nel vestire, i capelli radi, nonostante l’età ancora relativamente giovane, dal colore del fieno sul punto di marcire, lo costringevano a portare un basco unto e bisunto e tanto puzzolente da attrarre, durante la bella stagione, numerose le mosche le quali vi si posavano sopra, sostandovi a lungo, quasi in attesa che il pasto fosse sul punto di essere servito. La voce, poi, era così querula e con certe deformazioni tonali che i fedeli, durante le prediche, a fatica riuscivano a trattenere il riso, cercando di coprimi la bocca e bisbigliare, per evitare il contagio. Come fosse, infine, riuscito a farsi ordinare sacerdote, nessuno se lo sapeva spiegare.
Come se ciò non bastasse era, per sua scelta, completamente disinformato su tutto perché restio alla lettura di qualsiasi tipo; quando gli giungevano pubblicazioni, specialmente quelle sigillate, le ammucchiava, quasi con disprezzo sul pavimento, ignorandole, comprese le circolari ed il settimanale della Diocesi al quale la Parrocchia era abbonata. Unica lettura quotidiana, quella del Breviario a cui pareva appassionato, tanto che era riuscito con gli anni, a memorizzare qualche brano. Il vescovo, dal canto suo, preso atto della singolarità del personaggio, l’aveva relegato a svolgere la missione pastorale in una piccola comunità parrocchiale di montagna, ai confini della Diocesi. Infine, da qualche anno, era ossessionato dalla pinguedine che lui cercava di combattere in tutti i modi moderando, specialmente, il cibo e le bevande, ma inutilmente.
Un sabato pomeriggio, mentre era in chiesa, seduto in un banco prossimo al confessionale, intento alla lettura del Breviario ed in attesa che giungesse l’ora per la celebrazione della messa vespertina, fu avvicinato da una giovane.
“Buona sera, don Modesto”.
“Buona sera”, rispose lui, restando per qualche attimo fisso a guardarla.
“Non mi riconosce? Non si ricorda di me?”, chiese la giovane. Poi, senza dargli il tempo di rispondere, proseguì: “Sono Caterina, la figlia della panettiera”.
“Ah, ora mi ricordo. Ma come sei cresciuta!”.
“Già, gli anni passano… Don Modesto, vorrei tanto confessarmi. Chissà se ha tempo”.
“Ma certo”, rispose il sacerdote e, così dicendo, lasciò il Breviario sul banco per entrare in confessionale, mettersi la stola al collo ed aprire la piccola grata.
Dopo che Caterina si fu inginocchiata dall’altra parte ed entrambi ebbero fatto il segno di croce, don Modesto chiese: “Da quanto tempo non ti confessi?”.
“Da qualche anno, padre”, rispose la ragazza.
“Già.”, rispose il prete, per poi riprendere: “Dimmi dunque Caterina”.
La ragazza esitò per un attimo, quindi rispose con voce mesta. “Sono incinta”, disse con decisione.
“E, come fai a saperlo?”, chiese don Modesto.
“Da due mesi non ho più il ciclo e mi si sta gonfiando il ventre”, rispose Caterina. “A quale ciclo ti riferisci?”, chiese il prete.
“Ma alle mestruazioni!”, esclamò stupita la donna, per poi aggiungere: “Comunque il mese prossimo mi sposo con un bravo giovane, funzionario in un ufficio pubblico”, concluse Caterina, quasi a voler tranquillizzare il confessore.
“Bene, bene. Hai qualcos’altro da confessare, figliola?”, chiese ancora don Modesto.
“Nient’altro”, rispose la ragazza.
A questo punto il sacerdote, dopo averle imposto come penitenza la recita di tre pater ave gloria, le diede l’assoluzione, la benedisse e le fece tanti auguri.
Intanto gli anni passavano ed il ventre di don Modesto si faceva sempre più prominente tanto da preoccuparlo al punto da diventare una vera e propria ossessione. E poiché non aveva nessuno con cui confidarsi, questo segreto doveva purtroppo tenerselo tutto e solo per sé. Finché un giorno, all’uscita dal Vescovado, ove s’era recato in seguito ad un sinodo convocato dal Vescovo, si sentì chiamare per nome. Si volse e, sul marciapiede opposto scorse una donna che teneva per mano due bambini.
Prima che avesse il tempo di frugare nella propria scarsa memoria, la donna attraversò la via e gli venne incontro, esclamando: “Don Modesto, non mi riconosce? Sono Caterina, la figlia della panettiera!”.
“Ma guarda chi si rivede, dopo tanto tempo!”, esclamò a sua volta il prete, rallegrandosi.
“Che cosa ci fa in città?”.
“Sono venuto ad una riunione convocata dalla Curia”, rispose il sacerdote. Poi, ricordandosi della confessione di qualche anno prima, le chiese: “Allora com’è andato il parto?”.
“Male”, rispose la donna.
“Come mai? Cos’è successo?” chiese, sempre più incuriosito, don Modesto.
“All’inizio dell’ottavo mese di gestazione, mentre uscivo da un negozio, sono inciampata, cadendo, prima che mio marito avesse il tempo di sorreggermi, picchiando violentemente il ventre contro il selciato; portata urgentemente in ospedale, i medici hanno constatato che il cuore della creatura che avevo in grembo aveva cessato di battere per cui non restava altro da fare che abortire. Sapesse quanto ho pianto, padre… Per fortuna che il Signore ha fatto sì che poi nascessero questo bimbo e questa bimba che tengo per mano”, concluse la donna.
“Come vedi, le vie del Signore sono infinite. Proprio quando credi che ti abbia abbandonato, il Signore, eccolo lì, pronto ad aiutarti”, rispose don Modesto.
Dopo avere salutato la donna ed avere accarezzato sulla testa i due bambini, don Modesto s’avviò verso la stazione degli autobus per far ritorno in paese.
L’incontro con Caterina, se da un lato gli aveva fatto piacere, dall’altro lo aveva impressionato al punto da indurlo a considerare la necessità di prendere misure adeguate capaci, se non di eliminare, almeno di tenere sotto controllo il rigonfiamento del proprio ventre. Tutte le volte che, dopo essersi guardato di profilo allo specchio, notava sotto la sottana quello che gli pareva un corpo estraneo, un senso d’impotenza frammisto a rabbia s’impadroniva di lui.
Oltretutto, questo suo cruccio che stava diventando una vera e propria ossessione, non poteva confidarlo a alcuno, nemmeno ai confratelli, dal momento che questi ultimi, dal canto loro, non gliene avevano offerto l’occasione. Anche al di fuori dell’ambiente clericale non era riuscito a fare breccia. La gente che lo avvicinava, compresi i parrocchiani, lo faceva unicamente per assoluta necessità, come fissare la data di un battesimo o di un matrimonio, prendere accordi con le famiglie e le imprese di pompe funebri per la celebrazione di un funerale, fissare la data per la celebrazione di messe in occasione di anniversari di ogni tipo. Al di fuori di queste occasioni, il suo isolamento era pressoché totale.
Cominciò allora, lui che era un illetterato, a comprare libri e riviste specializzate nella cura del benessere della persona; a seguire diete particolari, volte al controllo del peso corporeo, ove venivano indicate tutte quelle sostanze di cui il corpo ha bisogno, dalle piante medicinali a quelle che forniscono le varie sostanze nutritive necessarie all’organismo umano. Limitò il consumo della carne sostituendola con il pesce. Filomena, la perpetua che lo assisteva ad ore facendogli visita tutte le mattine, non sapeva più che cosa pensare. A suo parere Don Modesto doveva essere impazzito. Come se non bastasse si fece costruire nel bagno un vano doccia per cui cominciò a lavarsi con più frequenza. Infine si disfò dei vecchi indumenti (compresi quelli intimi ormai lisi e pieni di buchi) comprandone altri; infine si fece confezionare due tonache e due copricapo nuovi. Insomma, Don Modesto non pareva più lui; solo una cosa gli era rimasta addosso: il ventre prominente.
A causa di questi mutamenti, solo apparentemente esteriori, la gente cominciò, com’è nell’ordine delle cose, a spettegolare: chi diceva che s’era fatto l’amante, chi si chiedeva dove mai avesse preso il danaro per farsi il vano doccia e per comprare le tonache ed i copricapo; dal canto suo, Don Modesto, quando incontrava per strada qualcuno, aveva cominciato a salutare, accompagnando il saluto con un sorriso, cosa che non aveva mai fatto prima. Pareva che la gente lo accettasse più volentieri, preludio, forse, ad un nuovo rapporto empatico con i fedeli? Ma la pancia era sempre lì, ad ossessionarlo.
Cosi una sera, verso il tramonto, mentre passeggiava in giardino, immerso in quell’ossessione che non lo lasciava mai, si ferme improvvisamente davanti ad una vecchia pianta di fichi, dal tronco enorme, ancora verde e rigogliosa, i cui rami, i pia bassi e robusti, si levavano circa due metri dal suolo, soffice ed erboso.
“E se prendessi la scala, salissi su uno di quei rami del fico e mi lasciassi cadere a peso morto al suolo, battendo la pancia? La modesta altezza e la morbidezza del tappeto erboso dovrebbero attutire l’impatto senza procurarmi grossi danni. Forse cosi potrei risolvere questo mio cruccio una volta per tutte”, si disse, dando un’ultima occhiata alla pianta, prima di rientrare in casa.
Quella sera non cenò; quello che aveva in animo di fare lo sconsigliava. Si sedette poltrona ad ascoltare le notizie dalla radio, poi andò nel ripostiglio, prese la scala ed usci i giardino. Dopo essere salito sulla scala sino a raggiungere il ramo più basso del fico, vi si arrampicò sopra con una certa difficoltà, mettendosi poi in piedi. In quel momento non spirava un filo d’aria. Quindi si fece un segno di croce per poi decidere di buttarsi.
Si lanciò nel vuoto ma, poco prima di toccare il suolo, ebbe la sensazione che qualcosa gli sfregasse sul ventre. Poi, il colpo secco sul tappeto erboso che, per qualche minuto lo lasciò come frastornato. Sul momento, gli parve che l’unico dolore gli venisse dal ventre per cui cominciò a muovere con estrema cautela prima le braccia: nessuna frattura; quindi le gambe, stessa cosa. Fu a questo punto che, nel tentativo di rimettersi in piedi, si passò una mano sulla pancia, trovandosi in mano un corpo estraneo: un pipistrello che aveva coinvolto nella caduta, schiacciandolo. Una volta rimessosi in piedi, lo tenne in mano, esclamando trionfante e meravigliato allo stesso tempo: “Ah! Eccoti qui, birbante! Non sei ancora nato e sei già vestito da prete!”.