Gianni Bugno è una leggenda del ciclismo. Attivo dal 1985 al 1998, ottenne 72 vittorie (tra cui i Campionati del mondo su strada del 1991 e del 1992 e il Giro d’Italia del 1990), fu uno degli ultimi corridori in grado di competere ai massimi livelli sia nelle classiche di un giorno che nelle grandi corse a tappe. Nel 1990 e nel 1991 fu inoltre il numero uno della classifica mondiale UCI (Unione Ciclistica Internazionale).
Ha impiegato oltre vent’anni dalla fine della carriera prima di pubblicare un’autobiografia. Come mai così tanto tempo in un periodo di instant book e di immediatezza dettata dal web?
Non lo so nemmeno io. Forse le circostanze del Covid mi hanno messo in condizione di ricostruire gli avvenimenti principali della mia vita sportiva, anche con testimonianze di altri, perché faccio comunque fatica a rivedermi in maniera obiettiva.
Ci spieghi il titolo del libro Per non cadere. Dobbiamo proprio credere che lei non sappia andare in bicicletta?
Sono sempre andato in bicicletta con la paura di cadere, non sono mai stato un funambolo. Ho iniziato a stare davanti nel gruppo e a impratichirmi con il tempo, finché non sono arrivato a fare volate pericolose, fughe e altre cose che, viste adesso, mi fanno pensare che non fossi neppure io in bicicletta.
Qual è la qualità migliore che si riconosce, come persona e come sportivo?
La voglia di lottare sempre, quella che permette a tutti gli sportivi di andare avanti. Il ciclismo tempra la persona. Insegna a combattere, fa star bene con se stessi e con gli altri.
Perché non ha conservato nulla di un passato così sportivamente glorioso, né trofei, né maglie, né ricordi?
Non sono amante del passato, del tenere le cose ferme, come in un museo. Conservare una bicicletta vuol dire tenerla funzionante e sempre pronta a essere utilizzata. Anche i trofei per me parlano del presente e prospettano il futuro, altrimenti non vale la pena tenerli. È il ricordo di una vittoria del passato e sono convinto che una persona a me cara, come quella cui li ho regalati, ne farà più buon uso di quello che ne farei io.
Nel libro afferma che per lei tutte le vittorie sono uguali, quella di una corsa per allievi, e ne ha vinte tantissime, come il campionato del mondo dei professionisti. Ci permette di dubitarne?
Io definisco la vittoria come qualcosa che si ottiene dopo grandi sacrifici. Ricordo la prima come l’ultima, e ognuna è importante perché avviene in un momento particolare della vita. In corsa non si può pretendere di vincere sempre, sono più le volte che le prendi di quelle che le dai. Perciò, quando le dai, le dai volentieri, perché hai imparato a darle a furia di sconfitte. Le vittorie sono una uguale all’altra, è come dire “ti piace più il primo figlio o il quarto figlio?”. Sono figli tuoi e per me sono tutte uguali.
Crede sia vero che valeva 100 e vinceva per 50?
Me l’hanno detto in tanti. Fa piacere perché vuol dire che avevo un bel valore. Però non vivo di rimpianti, quello che potevo fare l’ho fatto, ne sono contento e lo rifarei allo stesso modo.
Con che spirito si affronta un avversario difficile da battere?
Di avversari ne ho avuti parecchi, ma quando vai in bicicletta il tuo principale avversario sei tu stesso, devi lottarti contro, contro la tua fatica, la tua voglia di mollare nel momento in cui soffri e pensi di non farcela. È allora che devi pensare a tutta la fatica che hai fatto in allenamento proprio per affrontare quel momento, solo così riesci a riprenderti e arrivare al traguardo.
Un momento difficile della sua carriera fu quando la sospesero per doping, dovuto a caffeina, una sostanza che oggi neppure analizzano. Quali erano, chiamiamoli così, gli “imbrogli” di 30 anni fa?
Gli imbrogli ci sono, ci sono stati, ci saranno. Non sono solo del ciclismo, ma riguardano un po’ tutti gli sport, e sono un problema difficile da affrontare. Anche se la lotta contro il doping ha fatto passi da gigante, c’è sempre qualcuno che ci casca ancora.
Quali sono i suoi propositi per il futuro?
Sono nonno da poco e adesso penso a diventare un bravo nonno. E basta.
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