C’è un professore in pensione seduto al tavolino di un bar all’aperto. È una bella giornata di sole, la cameriera gli porta la colazione. Poco dopo appare un ragazzo, il professore lo invita a sedersi, è evidente che lo stesse aspettando. Il giovane ha la pelle scura, viene dal Mali: è ben vestito, sereno, pronto a “giocare”. Sì perché quell’appuntamento è nato perché i due giochino insieme completando un cruciverba assurdo in cui il giovane deve dare le risposte giuste. Un’unica regola rende il gioco impossibile: dare le soluzioni prima ancora che il quesito venga posto. Ci si gioca la vita, basta una risposta sbagliata per far partire un colpo di pistola.
Questa è la trama di “Passatempo”, il nuovo cortometraggio di Gianni Amelio: sedici minuti che sono lo specchio di un’umanità spinta verso la disumanità, come ha affermato lo stesso regista. Il corto nasce dall’edizione 2018 del progetto “Fare Cinema”, il corso di alta formazione in regia cinematografica che, sotto la direzione del regista settantaquattrenne, ha permesso ai corsisti di partecipare alla preparazione e alle riprese di un film e di presenziare ad alcuni eventi internazionali. Quest’anno, infatti, sarà proprio “Passatempo” ad aprire la Settimana Internazionale della Critica alla 76esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia.
Amelio aveva già trattato il tema dell’accoglienza nel 1994 con il film “Lamerica” incentrato sulla migrazione degli albanesi in Italia. Nella pellicola Fiore e Luigi, due affaristi italiani, si recano in Albania alla ricerca di un uomo del posto che possa fungere da prestanome per una truffa. Assolderanno un anziano residente di un ospizio, per poi scoprire che l’uomo non è altro che un italiano che ha nascosto la propria identità dopo la seconda guerra mondiale a causa delle persecuzione e dell’uccisione degli italiani rimasti in Albania.
«All’epoca di quei primi arrivi, gli albanesi venivano accusati di qualunque nefandezza. Adesso lo sono ancora, ma l’alibi è diventato più radicato e pericoloso. Allora c’era quel poco di fratellanza, di pietà, che faceva dire “sono persone anche loro, anche noi abbiamo vissuto le stesse esperienze”. Il film Lamerica era tutto questo, era un “pure noi siamo stati albanesi”. Ora questa volontà è perduta e c’è un atteggiamento che punta alle viscere della gente. Chi scappa e cerca rifugio viene visto come un pericolo assoluto. L’accoglienza è diventata respingimento, la paura è arrivata a livelli altissimi» ha commentato Amelio in un’intervista a La Stampa.
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