Gian Paolo Ormezzano, il grande giornalista, si è spento a Torino lo scorso 26 dicembre a 89 anni. Ha raccontato oltre mezzo secolo di storia attraverso le imprese sportive.
“Lassù qualcuno ti ama”. Il titolo con cui, da direttore di Tuttosport, Gian Paolo Ormezzano salutò il settimo scudetto del Torino è perfetto per accompagnare il suo ultimo viaggio. GPO, come usava firmarsi, tra i più grandi giornalisti sportivi (ma forse sarebbe più corretto dire “cantori dello sport”) italiani, ci ha lasciato lo scorso 26 dicembre. Se n’è andato dopo un Natale in famiglia, carico di un ultimo rifornimento della verve che lo ha accompagnato per tutta la vita.
Gian Paolo Ormezzano e l’incontro con il Grande Torino
Piemontese purosangue, era nato a Torino nel 1935 e fin da bambino era rimasto fulminato dal demone della scrittura. Sportiva, preferibilmente, visto che per lo sport nutriva un’attrazione fatale. Da sfollato a Limone Torinese, durante la seconda guerra mondiale, aveva imparato a sciare, praticando poi la corsa, il basket e il nuoto. “Talvolta vincitore nel dorso e nel crawl”, in vasca aveva perfino sfidato Carlo Pedersoli, campione italiano e futuro Bud Spencer. Sopra tutto, però, la sua adolescenza fu segnata dall’incontro col “Grande Torino”, la formidabile squadra di calcio capace di vincere un titolo italiano prima della sospensione bellica, nel 1943, e poi altri quattro consecutivi dal 1946 al 1949. “Non si poteva uscire dallo stadio Filadelfia senza essersi innamorati del Torino”, raccontava: il suo preferito, per amore del ruolo, era il terzino Maroso; ma il capitano Valentino Mazzola non mancò di rapirlo nel suo incantesimo. “Non era perfetto in niente”, la disamina di GPO, “ma quasi perfetto in tutto: perciò era unico”.
Il Grande Torino lo inebriò fino all’idolatria e poi lo precipitò nello sconforto, il 4 maggio del 1949, quando l’aereo che riportava a casa la squadra da una trasferta a Lisbona si schiantò contro la collina di Superga, a causa della nebbia. Venne a dirglielo il padre, nella sua stanza, e da allora un senso di malinconia, di umana compassione per gli eroi troppo belli e sfortunati, si insinuò nel cuore e nella penna di Ormezzano. Un cinismo amaro, che era solo la cuspide di una piramide di sentimento, finezza stilistica, capacità “immaginifica” della sua scrittura. A Superga morì anche Renato Casalbore, salernitano di nascita, fondatore e primo direttore del quotidiano Tuttosport; e proprio di Tuttosport Ormezzano divenne “galoppino” e poi apprendista giornalista, mentre frequentava – senza arrivare a laurearsi – la facoltà di giurisprudenza. Il 2 gennaio del 1960 uscì per sempre dall’anonimato: gli alti papaveri del giornale erano alle prese con le conseguenze del veglione di capodanno e mandarono lui al capezzale di Fausto Coppi.
Si pensava a un malanno passeggero, invece il Campionissimo morì per una malaria non diagnosticata. Ormezzano scrisse l’articolo da par suo, forse la prima volta col nome scritto per intero, e la sua carriera decollò. A Roma, quello stesso anno, partecipò alla sua prima di 25 Olimpiadi (tra estive e invernali) da inviato: quando Livio Berruti vinse i 200 metri piani, infranse il protocollo e corse in pista ad abbracciarlo, impazzito di gioia. Sarebbe rimasto uno dei suoi eroi sportivi, come Eddie Merckx (“il ciclista più forte, mentre Coppi era il più grande…”), come l’ala granata Gigi Meroni, morto nel 1967 a soli 24 anni, come Graziani e Pulici e tutti i campioni che nel 1976 gli regalarono la gioia di un nuovo scudetto. I santi di Superga fecero finalmente il miracolo e lui, rivolto direttamente all’amato Torino, titolò “Lassù qualcuno ti ama”.
I reportage dalla Cina
Era da due anni direttore di Tuttosport e sarebbe durato in sella fino al 1979. Prima c’erano stati i reportage dalla Cina nel 1966 e dalla base di Cape Canaveral, nel 1969, per il lancio della missione Apollo 11, e poi la celebre intervista con Muhammad Alì a Kinshasa nel 1974. Dopo l’esperienza di Tuttosport, fu editorialista della Stampa e del Guerin Sportivo, senza dimenticare la cinquantennale collaborazione con Famiglia Cristiana e i racconti di sport sul settimanale per ragazzi “Il Giornalino”. Fra quelle pagine lo conobbi anche io, prima di incontrarlo molti anni dopo e di riceverne il dono della prefazione alla mia “vita in romanzo” di Ayrton Senna.
Ormezzano e il ricordo di Senna
Con l’automobilismo, la Formula Uno in particolare, aveva avuto una frequentazione “da zingaro” tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta, quando i giornali per cui scriveva non avevano addetti ai motori e lui suppliva con gioia e la solita insaziabile curiosità. Nel suo ricordo Senna aveva occhi tristi che suggerivano intelligenza, somigliava più a Garrincha che a Pelé e “sembrava aver patito una polio tutta sua, dentro”. Ghost writer di Enzo Ferrari e Giampiero Boniperti, autore di saggi (“I cantaglorie”, tre volumi di “Storia del ciclismo”, uno di “Storia del calcio” e uno di “Storia dell’atletica”, fra gli altri) e di romanzi (“Giro d’Italia con delitto”, “La fine del campione”), si considerava uno scrittore imperfetto; e apparteneva invece al club dei Brera e dei Mura, quelli capaci di catturare e trasfigurare la realtà con un “guizzo”. È stato anche protagonista di molti programmi televisivi: dal debutto in Rai nel 1962 alle collaborazioni con La Domenica Sportiva, 90° Minuto e la Gialappa’s Band. “Ho avuto una vita fortunata”, sentenziava. “Ho vinto tante lotterie, ma ho comprato tanti biglietti lavorando. C’è chi ne ha comprati più di me senza mai vincere e c’è chi si lamenta di non vincere, ma di biglietti non ne ha comprati mai”.
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