La console onoraria dell’Italia in Giamaica, Maria Carla Gullotta, ci racconta i suoi primi trent’anni di vita e lavoro sull’isola caraibica. Dalla passione travolgente per la musica reggae, al costante impegno sociale con la Ong da lei fondata “Stand Up for Jamaica2”. Una lunga storia nata sotto il segno del sorriso, come quelle di Joy e Cherry, due donne che sono riuscite a realizzarsi nell’Isola che ha dato loro i natali e che amano profondamente
«Sono arrivata per la prima volta in Giamaica come una normale turista, con al seguito i miei figli di 7 e 10 anni, durante uno dei nostri numerosi viaggi zaino in spalla. All’epoca vivevo a Roma, dove lavoravo come leader sindacale dei Cobas Scuola», racconta.
Al rientro in Italia, insoddisfatta del lavoro e con la trasbordante passione per la musica giamaicana che, nel 1980, la spinse a partecipare al leggendario concerto di Bob Marley a San Siro, Maria Carla inizia a immaginare un futuro diverso, oltreoceano. «Oltre a scrivere di sonorità reggae per La Repubblica, ho partecipato al lavoro di un’etichetta musicale ed ero socia nella prima agenzia del genere in Italia. La vera svolta, quella che mi permise di ritornare più volte a viaggiare sull’Isola, però, avvenne con l’uscita di due libri: Viaggia la musica nera. Dalla Jamaica il Reggae, scritto a sei mani con Ernesto Assante e Mirco Melanco, e la guida turistica in italiano della Giamaica redatta con Cinzia Bocca per Clup/Utet».
Sempre più affascinata dalla diversità culturale e dall’animo sempre positivo del Paese caraibico, a dieci anni dal suo primo incontro con la Giamaica, decide di lasciare definitivamente la Capitale e trasferirsi nel distretto di Portland con tutta la famiglia (lei e i suoi quattro figli). «Adoro questa parte dell’Isola perché, oltre a essere molto bella, è sempre rimasta fuori dai circuiti turistici di massa. Qui, non lontano dalla famosa spiaggia di Frenchman’s Cove, ho aperto la guest house che oggi gestisco insieme alla mia primogenita, quarantacinquenne e madre di due figli».
Approdata sull’Isola, Maria Carla avverte presto l’esigenza di mettere al servizio della comunità la sua lunga esperienza nel sociale e la professionalità maturata nella nostra Penisola come insegnante per le persone svantaggiate. «Fin da subito, mi sono occupata attivamente di diritti umani, prima nel ruolo di coordinatrice di Amnesty International Italia per la Giamaica e, successivamente, grazie ai canali del reggae in Europa (reggae people, la comunità reggae, ndr) fondando una Ong». Con sede nella capitale Kingston, Stand Up for Jamaica è una delle più importanti organizzazioni non governative dell’Isola e si occupa di fornire un sostegno concreto alle fasce più fragili della società, dalle vittime della discriminazione di genere – in uno stato dove l’omosessualità è illegale – ai minori e alle donne, con una particolare attenzione alla difficile situazione delle carceri.
Se è vero che, negli alti livelli, si può dire che la Giamaica vada avanti prevalentemente grazie a donne forti e indipendenti (l’ex primo ministro, Portia Simpson Miller, è stata la prima donna a guidare un governo delle Isole caraibiche), nelle fasce più basse della popolazione sono proprio loro a pagare il prezzo più alto. «Una delle molteplici e tragiche piaghe lasciate dalla schiavitù in Giamaica è la distruzione dell’istituzione famigliare, un concetto che solo adesso e con fatica, si sta ricreando. La fedeltà, per gli uomini giamaicani, non è un valore. A un anno dalla nascita del primo figlio non è raro che il neo padre si costruisca un’altra famiglia altrove. Il problema è che se la donna si trova da sola con i figli e senza lavoro, anziché allontanare il marito fedifrago e spesso violento, è costretta a tenerlo in casa passando ai suoi figli, e soprattutto alle figlie, un messaggio di subalternità profondamente sbagliato oltre che molto pericoloso».
Il lavoro di Maria Carla Gullotta e della “sua” Ong è quello di ridare fiducia e speranza a quelle donne e a quei minori che sono finiti dietro le sbarre, spesso come soluzione estrema per difendersi dagli abusi e dai soprusi della famiglia e della “strada”. Ed è esattamente qui, complici anche i testi apertamente violenti e discriminatori di certa musica dancehall che, senza più padri né madri, i più fragili finiscono tra le braccia delle gang. «Oltre a fornire un’assistenza psicologica in carcere, la missione di “Stand Up for Jamaica” è quella di riabilitare e di reintegrare i cittadini attraverso corsi professionali come, ad esempio, informatica, sartoria, artigianato, musica e teatro portandoli, dov’è possibile, al conseguimento del diploma. Sono consapevole che la nostra è solo una goccia nell’oceano, ma l’Ong è la creatura di cui vado più fiera e uno sforzo che vale sempre la pena di essere compiuto».
In trent’anni di vita sull’Isola, sono diverse le battaglie che la console onoraria italiana in Giamaica ha scelto di combattere a fianco dei giamaicani. Una di esse è quella contro la privatizzazione di Winnifred Beach, una delle poche spiagge pubbliche (nel Portland) rimaste ad accesso libero lungo l’intero litorale isolano. «Per ora, grazie alla massiccia partecipazione dei locali che si sono attivamente opposti allo snaturamento di una delle località più autentiche di tutto il distretto e forse dell’Isola, sembrerebbe vinta, ma occorre ancora vigilare per evitare brutte sorprese. Ciò che più mi ha conquistato e tuttora apprezzo molto dei giamaicani – aggiunge – è che, nonostante le reali difficoltà che gran parte della popolazione attraversa, il sorriso sulle labbra non manca mai. E mi spiace di non poter dire lo stesso degli italiani. Sto bene in Giamaica e non ho intenzione di cambiare casa ma, se dovessi identificare un aspetto tipicamente italiano per cui non mi manca il mio Paese, forse sarebbe proprio la tendenza costante alla lamentela. Per come la penso io, se le cose non vanno, occorre rimboccarsi le maniche e cambiarle».
Purtroppo, dopo una prima fase in cui il Coronavirus sembrava un problema lontano per i Caraibi, e poi un inizio molto “soft” che faceva sperare in un contenimento dei contagi, nelle scorse settimane i numeri sono aumentati e anche la Giamaica è stata travolta dall’emergenza. Sull’isola è scattato il lockdown, ovunque c’è l’obbligo della mascherina e alcuni dipartimenti, quelli dove si registra il maggior numero di casi, sono stati isolati. «In un Paese che vive di turismo, dove l’economia è già di per sé precaria e in cui trionfa il lavoro nero, la mia preoccupazione è che l’accentuarsi della povertà possa generare un’escalation di violenza». God bless Jamaica.
Joy Spencer, la signora del rum
Il sogno di Joy Spencer è sempre stato diventare medico, fino a quando un’insegnante delle scuole medie la fece innamorare della chimica. «Ero così appassionata che la sera, anziché uscire con le amiche, le davo una mano a preparare i laboratori per le classi superiori», racconta. Il quarto anno di scuola, la donna morì di parto e Joy promise a se stessa che, in suo onore, sarebbe diventata la più grande chimica del mondo.
Dopo essersi laureata in Chimica alla University of the West Indies di Kingston, inizia la carriera di insegnante, prima alla scuola media, ricoprendo la stessa cattedra che fu della sua mentore, e poi all’università. Lanciata nel mondo del lavoro da un master in UK, ricopre il ruolo di chimica ricercatrice per l’azienda di liquore Tia Maria e, dal 1981, è capo chimico alla Appleton Estate Jamaica Rum.
«La mia vita è cambiata nel 1997 quando, dopo 17 anni di apprendistato alla Appleton, sono diventata la prima master blender donna al mondo nell’industria degli alcolici». Da allora, Joy Spencer ha fatto una brillante carriera (Fortune l’ha inclusa nella top 20 delle donne più innovative nell’industria del food and beverage mondiale), creando grandi blend di rum riconosciuti a livello internazionale.
«Come me, molte donne in Giamaica rivestono ruoli importanti. Credo che la forza delle donne giamaicane sia dovuta ai nostri antenati africani. Nelle tribù dei Coromantee, ad esempio, erano le donne a lottare mentre gli uomini restavano nei villaggi a occuparsi dei bambini». Per omaggiare Joy, oggi l’azienda acquistata dal Gruppo Campari propone la “Joy Spencer Appleton Experience”, un tour alla scoperta della storia e della produzione del famoso rum isolano.
Da “Mama” cherry
Il suo vero nome è Audry Cousins, ma a Port Antonio tutti la conoscono con il dolce soprannome di Cherry (ciliegia). Dal 1986, con il marito Woody gestisce il Woody’s Low Bridge Place, un popolare chiosco di hamburger non lontano dalla famosa baia di Frenchman’s Cove.
«È iniziato tutto per gioco – racconta “Mama” Cherry -. Ci è sempre piaciuto cucinare ed essere circondati dalle persone. Così, un giorno di 34 anni fa, guardandoci negli occhi abbiamo deciso di aprire la nostra casa e i nostri cuori a chi passasse di qui». Che quello di Cherry e Woody sia un posto speciale, lo si intuisce subito dai colori vivaci, dalle frasi e dai ritagli di giornale che ricoprono le pareti.
«Fin dal primo giorno è stato come se li conoscessimo da sempre. Non so come spiegarlo, forse perché ci raccontano le loro storie e alcuni addirittura piangono davanti al bancone, ma con i nostri clienti si sviluppa un attaccamento naturale.
Nella nostra attività, ciò che ci rende ricchi è la possibilità di far sentire meglio le persone, di condividere dei momenti con loro». E i clienti del Woody’s Low Bridge Place, dal giamaicano al turista, fino al giornalista del The New York Times che gli ha dedicato una recensione, apprezzano.
«Cucinare non significa solo preparare il cibo e servirlo, ma è un gesto che viene dal cuore», sottolinea Cherry. Anche vegetariani e tutti a base di ingredienti a chilometro zero mentre si gustano gli ottimi hamburger di Cherry, si può assistere all’esibizione dal vivo di “Papa” Woody.
«Eh sì, non è solo un ottimo marito, ma anche un “aspirante” cantante reggae», ride Cherry.
- Servizio fotografico di Stephanie Gengotti
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