Giuseppe Gesano. Già ricercatore all’Università di Roma “La Sapienza”, poi professore associato di Demografia all’Università “Ca’ Foscari” di Venezia, infine dirigente di ricerca del CNR e direttore d’Istituto nel campo degli studi di popolazione; ora pensionato. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni scientifiche e dal 2009 dedica parte del suo tempo alla scrittura creativa. Partecipa al Concorso 50&Più da diversi anni e nel 2017, 2021 e 2022 ha ricevuto la Menzione speciale della Giuria per la prosa. Vive a Roma.
Bloccò l’auto nel bel mezzo della carreggiata, abbassò il finestrino dal lato del passeggero e con due colpi di clacson richiamò l’attenzione del vecchietto che pascolava il cane sul marciapiede.
«Ah… sei tu… non ti riconoscevo… Bella macchina… è la tua?» smozzicò quello tra gli strattoni del botolo che ringhiava attratto dagli afrori canini del muro confinante.
Intanto lui si era tolto gli occhiali a specchio, risistemato il berrettino a lunga tesa, ribadito i guantini mezze-dita in pelle sfoderata. Con un sorriso a trentadue denti (tutti reimpiantati) rispose: «Sì! È un’Abarth 695 Rivale… ma io la chiamo Rivalsa.»
Lasciato il tempo all’amico di percorrere con lo sguardo le linee compatte e aggressive dell’auto, di soffermarsi sullo spoiler posteriore, di godersi il gioco delle tonalità bicolori, di dare un’occhiata ammirata agli interni e alla plancia in mogano mentre dietro si andava formando una fila di auto insultanti, riprese: «Un giorno di questi passo a prenderti per farci un giro… ma senza quello lì, eh, ché me la sporca!» indicando il cane.
Poi ingranò la marcia con la corta leva del cambio (che aveva voluto manuale) imballò il motore e rilasciò la frizione. L’auto partì di scatto, ma senza quello stridio delle gomme che a lui sarebbe piaciuto: il controllo antipattinamento era automatico e non si poteva escludere.
Percorse poche centinaia di metri, si preparò alla svolta nella sua stradina privata con un punta-tacco e una doppia debraiata del tutto superflui. Finalmente si udì un lamento dagli pneumatici sottoposti alla decisa sterzata che lui aveva impostato incrociando le braccia; tuttavia, l’entrata in funzione del sistema che simula il blocco del differenziale limitò la derapata. L’imperiosa frenata prima del muro di fondo del garage avvenne invece senza un mugghio: ancora una volta l’ABS aveva evitato l’impatto di fine corsa.
L’aveva sognata per tutta una vita, o meglio, aveva spasimato per la 695 SS in gioventù, quando non poteva permettersi nemmeno la 5oo base. Andava a tifare per lei negli autodromi, lungo i percorsi delle gare in salita e a lato di circuiti improvvisati su strade sterrate. Poi erano venuti gli anni del carico familiare e quelli dell’impegno sul lavoro. Richiedevano entrambi ben altri mezzi di trasporto: autocarri speciali per effettuare i prelievi e auto spaziose per ospitarvi la famiglia, che aveva dovuto formare troppo presto, numerosa fin dall’inizio per la nascita inattesa di tre gemelli.
Superate le prime difficoltà, i soldi che era andato facendo con la sua impresa non potevano essere sprecati nella realizzazione di vani sogni giovanili, ma avevano delle precise destinazioni: l’acquisto di mezzi e di tecnologie sempre all’avanguardia per tener testa alla concorrenza; il benessere della famiglia, sistemata in una villetta periferica ma dotata di ogni confort; e poi gli studi dei figli, che voleva tutti laureati e specializzati, lui che dopo le elementari aveva fatto solo la scuola d’avviamento al lavoro.
E i figli l’avevano ripagato pretendendo di studiare in costosi collegi e università di altre città o all’estero, che garantivano una preparazione migliore e delle prospettive di lavoro più sicure. In realtà, non sopportavano d’essere emarginati a causa dell’attività del padre. Il risultato finale era stato che ognuno di loro si era sistemato altrove e che anche il figlio sul quale lui aveva puntato per passargli la baracca gli aveva voltato le spalle per andare ad aprire un B&B in Costa Rica.
La moglie, dopo i primi anni in cui prendeva le chiamate tra gli impegni materni e casalinghi, aveva preteso una vita all’altezza del benessere raggiunto, così che frequentava un giro di amiche con le quali andava per negozi, a interminabili tornei di burraco e, anche senza di lui, in crociere su navi favolose. Andava poi per il mondo a trastullare i numerosi nipoti, con i quali riusciva a comunicare a stento, perché parlavano lingue diverse dal suo stretto dialetto locale.
Per quanto ripulito e nobilitato dalla riuscita della sua famiglia lui rimaneva pur sempre l’Uomo dei pozzi neri. Più di una volta aveva pensato di trasferirsi in un altro quartiere dove presentarsi come un imprenditore non meglio precisato. Ma il logo sugli auto-spurgo e la pubblicità stradale legavano in modo indissolubile il suo strano cognome alle funzioni che svolgeva la sua ditta.
Arrivato a settant’anni aveva detto «Basta!» e aveva venduto la ditta imponendo il cambio di ragione sociale. Distribuiti i soldi a moglie e figli, aveva tenuto per sé un gruzzolo sufficiente a soddisfare i suoi sogni differiti: tra questi finalmente l’auto delle sue brame. Consultate le riviste del settore, la sua scelta era caduta sul top di gamma: l’Abarth 695 Rivale, serie numerata, appena uscita dalla collaborazione tra la meccanica estrema della fabbrica torinese fondata dall’elaboratore Karl Abarth e l’eleganza dei motoscafi di Riva del Garda; il nome aggressivo nasce da quell’intesa. Lui l’aveva storpiato in Rivalsa per marcare il cambio di marcia che la nuova auto doveva segnare in un percorso di rivincita rispetto alla vita precedente.
Una lunga galleria unisce il suo quartiere col centro città. Il percorso, cadenzato da cartelli luminosi, aree d’emergenza e indicazioni delle vie di fuga, vuole comunicare sicurezza anche agli automobilisti più claustrofobi, mentre cerca di costringere tutti a una percorrenza ordinata. Come ovunque, però, ci sono i distratti, gli impazienti, gli insofferenti, i ribelli alle regole, gli sciagurati.
Imboccò la galleria a fari spenti, ma il salto di luce tra il pomeriggio assolato e l’interno del tunnel era attenuato dalle luci regolate in modo da adattare progressivamente gli occhi. Davanti a lui la via era libera anche grazie all’ultimo semaforo che aveva bruciato con una partenza a scatto. Scalò la marcia solo per mandare su di giri il motore, che rispose alla pressione dell’acceleratore col rombo dei due tubi di scarico amplificato dalle pareti della galleria.
«Senti come canta. È meglio di un’orchestra!» urlò rivolto al vecchietto del cane che, affondato nel sedile e avvinto dalla cintura di sicurezza, stringeva le cosce con le dita sbiancate dal terrore.
«Rallenta, ti prego», biascicò quello, «non c’è fretta d’arrivare».
Lui gli rispose con una risata.
D’improvviso, mentre ancora rideva, vide tutto nero, come se fosse venuta a mancare la corrente a tutti i sistemi elettrificati della galleria e, in contemporanea, allo schermo sulla plancia: tutto buio! Cercò dietro al volante la levetta dei fari, ma non trovò più né i comandi né il volante, e non trovò nemmeno il pedale del freno sul quale aveva cercato di gettarsi per la disperazione.
Poi, però, gli entrò dentro una calma indicibile, rafforzata dal silenzio assoluto nel quale proseguiva la sua corsa nel buio.
Li tirarono fuori con un difficile lavoro di fiamma ossidrica, districandosi tra i sette airbag che li avevano protetti. Il vecchietto del cane era illeso, solo stordito e maleodorante. Anche lui non aveva un graffio, ma era senza vita. Il suo corpo venne sottoposto ad autopsia: non vi trovarono né alcol né droghe, ma solo un embolo che aveva spento d’improvviso le sue funzioni cerebrali.