Giuseppe Gesano.
Già ricercatore all’Università di Roma “La Sapienza”, poi professore associato di Demografia all’Università “Ca’ Foscari” di Venezia, infine dirigente di ricerca del CNR e direttore d’Istituto nel campo degli studi di popolazione; ora pensionato. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni scientifiche e dal 2009 dedica parte del suo tempo alla scrittura creativa. Ha pubblicato un romanzo “Il ritratto del nonno”, una raccolta di racconti “All the Lonely People”, e le opere “Il dilettante” e “I giorni, le opere i pensieri”. Partecipa al Concorso 50&Più da diversi anni e, nel 2017 e nel 2021, ha ricevuto la Menzione speciale della Giuria per la prosa. Vive a Roma.
Mi sono svegliato nel buio, e il tempo si era arrotolato su sé stesso.
È da un po’ che il tempo, quello cronologico, mi dà dei problemi. Ho cominciato col perdere il controllo della data, del giorno del mese, affidandomi piuttosto al ripetersi più stretto dei giorni della settimana, in ciò forzato dai tanti farmaci che assumo: di fatto, sui loro blister, in corrispondenza delle pillole sono riportati lun | mar | mer | gio | ven | sab | dom, in modo che si possa controllare d’aver preso tutti i farmaci della giornata e che si eviti di prenderne per sbadataggine più di quanto ci è stato prescritto.
Quella sequenza mi fa notare che oggi è ancora una volta lunedì. Inutilmente, però, perché il mio lunedì non sarà diverso dalla mia domenica o dal mio martedì: sarà un giorno come tutti gli altri, un giorno senza passato né futuro, un giorno senza ricordi né speranze.
Non è stato così nella mia vita precedente, quando ogni lunedì costituiva la cesura tra il tempo del riposo, della famiglia, degli amici, del divertimento e i giorni di lavoro che mi stavano dinnanzi. Allora, ogni lunedì era il momento della speranza di una proficua settimana d’affari nella mia attività di agente di commercio; ogni lunedì era il momento del sogno. Qualcuno ha di certo già scritto che un commesso viaggiatore deve sognare: i sogni fanno parte del suo mestiere.
È vero! Un sacco di sogni, di progetti, di speranze. Ma ora… ora no: prospettive, avvenire, sono ormai parole che per me non significano niente. Non so più neanche quello che voglio. Credo che sia per questo che il tempo m’appare come se si fosse arrotolato su sé stesso.
Nelle mie letture per diletto sulla fisica subatomica mi sembra d’aver capito che secondo la Teoria delle stringhe vi sarebbero numerose dimensioni oltre alle tre dello spazio e alla quarta del tempo che noi percepiamo e misuriamo. Quelle altre dimensioni risulterebbero però compattate, cioè arrotolate su loro stesse: esisterebbero solo perché sono necessarie a rendere coerente la teoria: si può dire che sono teoriche; per noi, per la nostra vita di ogni giorno sono del tutto irrilevanti. Ho paura che per me, oramai, anche la dimensione empirica e misurabile del tempo abbia subìto la stessa sorte.
Devo cercare di capire come ciò sia potuto accadere, che cosa significhi e che cosa comporti questo arrotolamento del tempo. Attenti! Arrotolamento, non riduzione del tempo prospettivo, il che è un’ovvia conseguenza del diventare vecchi e di avvicinarsi sempre più al momento in cui finirà il nostro tempo individuale. Riduzione questa ineludibile, che però può essere contrastata fino a che il tempo residuo, anche quando si fosse ridotto a un solo secondo, contiene un grano d’interesse o di speranza per chi ha ancora da viverlo.
Tutto dev’essere iniziato quando si attutirono i miei entusiasmi e cominciai a vivere una vita monotona, sedentaria: giornali e libri, libri e giornali e tanti, tanti programmi televisivi. Di libri e di giornali si può morire, per non parlare della televisione!
Anche perché l’aver vissuto a lungo e – almeno io ne sono convinto – con una discreta consapevolezza mi renderà pure saggio, ma mi nega il gusto della novità, della sorpresa. Tutto mi sembra un noioso dejà vu: l’ultima rivelazione letteraria mi ricorda libri della mia giovinezza; le notizie scandalistiche sparate sui giornali di oggi assomigliano a quelle che ho letto lungo tutta la vita; i protagonisti della politica si ripropongono invariati di persona, oppure ripetono slogan e promesse che ho sentito in ogni campagna elettorale; le inchieste giornalistiche o televisive, se pure cambiano temi e bersagli, seguono un percorso a me già ben noto, che va dall’indagine alla scoperta, all’accusa, alla denuncia, fino alla scorata constatazione che poco o nulla potrà cambiare in seguito a quel reportage; le serie televisive e i film raccontano copioni scontati, per cui riesco spesso a indovinare che cosa sta per accadere, oppure cercano di sorprendermi con soluzioni fuori da ogni logica e da ogni realismo possibile (eppure, anche quelle soluzioni cervellotiche io le ho già incontrate, o le ho già immaginate nella mia mente).
Dopo tanti esami affrontati nel corso della mia vita, superati in modo più o meno soddisfacente ma in ogni caso lasciati alle mie spalle, finisce che adesso sono io a farli agli altri. Ciò, tuttavia, non mi dà soddisfazione; anzi m’annoia, perché le domande sono sempre le stesse e – ancor peggio – mi sembra che anche le risposte siano sempre le stesse. Gli entusiasmi che vedo fervere per una mostra, per uno spettacolo, per un nuovo personaggio mi lasciano indifferente; oppure, proprio in base alla mia passata esperienza di convincente imbonitore, mi fanno sospettare che sia tutto artefatto, che si tratti di una ben orchestrata campagna per “vendere il prodotto”.
Sento il bisogno di sincerità, di purezza. Ma queste qualità astratte non esistono veramente se non si trasformano in atti e fatti, in luoghi e tempi definiti. Appaiono pertanto ridicole e fuori moda perché mancano di virtualità; sono l’opposto degli arzigogoli ingannevoli che il web e gli altri mezzi di comunicazione ci propinano in cascata. E mi pare che la gente voglia essere illusa: ha simpatia per te se gli dai un briciolo di speranza, così come io ne ho elargito a bizzeffe nella mia attività di agente di commercio. Ma ora favole da raccontare io non ne ho più. E non c’è più niente di seminato nel mio pezzetto di terra per cui valga la pena di aspettare che spunti il germoglio, che cresca la pianta, che escano le gemme, che queste fioriscano e che alla fine fruttifichino; sul mio terreno non cresce nemmeno il soave loto, che mi potrebbe donare un irresponsabile oblio.
La responsabilità, è vero! Quella che ti tira per la giacchetta e ti riporta di fronte agli impegni che hai preso con la realtà, col mondo, con gli altri, perfino con te stesso. Sarebbe questa la via della salvezza? Quella che ti restituisce una prospettiva di tempo e di progetti, di ideali… o almeno di cose da fare? Anche questa strada, però, mi sembra ora sbarrata o – peggio ancora – che porti a una sorta di impegno caotico, fatto per fare, e lontano da quella imperturbabilità che vorrei invece raggiungere.
Che abbia sbagliato tutti i miei sogni? Oppure la legge del vivere civile mi ha assoggettato a pronunziare i «sì» senza convinzione, quando i «no» mi salivano alla gola come tante bolle d’aria? Tutto deve forse avere l’inizio e la fine che vogliono gli altri? …Ma, se è così, deve dominare su tutto un potere di condizionamento reciproco senza limiti. Allora anch’io, come tutti, nella mia vita devo aver cercato di condizionare e forse d’imporre le mie scelte agli altri. Ne consegue che le vite di tutti rimangono mutuamente determinate e che il tempo di ciascun individuo non può scorrere in modo libero. Tanto vale che si arrotoli su sé stesso.
Ma perché, perché a questo mondo ci si capisce qualcosa soltanto in punto di morte? … In punto di morte? E chi mi dice d’esserci prossimo? L’uomo sa che deve morire e che non c’è niente da fare. Sa pure che non può sapere quando questo avverrà. Ma sa con certezza che quando comincia a vivere come un albero, quando passa le giornate sdraiato in poltrona a leggere libri e giornali, o a guardare la televisione, la fine non può essere tanto lontana. Quando, come già il tempo, anche lo spazio intorno a me si ripiegherà su sé stesso nelle sue tre dimensioni allora sarà proprio la fine.
Come ho già detto, però, gli agenti di commercio devono vivere di speranza, per far sognare tanto i loro clienti quanto sé stessi, qualunque sia la merce che essi trattano: materiale, immateriale o addirittura spirituale, come fanno i ministri di tutte le religioni, confessionali o laiche che siano.
E allora lasciatemi la speranza, o almeno il sogno che al di là di quel punto e di quel momento (credo che qualche fisico lo potrebbe chiamare singolarità individuale finale) mi si aprirà un nuovo spazio e un nuovo tempo, così come – ho letto nelle mie vane ricerche sulla cosmologia – potrebbe essere avvenuto all’inizio del nostro universo secondo la teoria del Big Bounce (cioè del Grande Rimbalzo); la quale è un’ipotesi di ricorrenza ciclica di espansioni e contrazioni dell’universo alternativa al ben più noto Big Bang, il quale a me pare che mantenga un inizio ancora un po’ troppo creazionista, con un nulla senza spazio e senza tempo improvvisamente seguito, quasi per un gesto soprannaturale, da un tutto che si espande nelle sue diverse dimensioni.
Ma io, sarò sempre Io in quell’altro spazio-tempo? Questo è il dubbio. (*)
(*) Il racconto-riflessione contiene ampie citazioni, in parte adattate, tratte da due pilastri del teatro di prosa del Novecento: Morte di un commesso viaggiatore, che Arthur Miller mise in scena a New York nel 1949, e Gli esami non finiscono mai, ultima commedia di Eduardo De Filippo, che lui volle compresa nella raccolta Cantata dei giorni dispari e che ebbe la sua prima rappresentazione al Teatro della Pergola di Firenze il 21 dicembre 1973. Una sua prima stesura, però, risale a vent’anni prima, a ridosso del debutto in Italia del dramma di Miller avvenuto al Sistina di Roma nel febbraio del 1951, e dopo l’uscita del film che il regista László Benedek ne trasse in quello stesso anno. La tematica del rapporto tra una vita dalla fine travagliata e la morte per suicidio o per volontaria consunzione, così come molti aspetti narrativi, scenici e di alcuni personaggi, nei loro caratteri e azioni (in un paio di casi perfino nel nome), sembrerebbero accomunare, almeno in parte, i due lavori teatrali.