Giuseppe Gesano. Già ricercatore all’Università di Roma “La Sapienza”, poi professore associato di Demografia all’Università “Ca’ Foscari” di Venezia, infine dirigente di ricerca del CNR e direttore d’Istituto nel campo degli studi di popolazione; ora pensionato. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni scientifiche e dal 2009 dedica parte del suo tempo alla scrittura creativa. Ha pubblicato un romanzo “Il ritratto del nonno”, una raccolta di racconti “All the Lonely People”, e le opere “Il dilettante” e “I giorni, le opere i pensieri”. Partecipa al Concorso 50&Più da diversi anni e, nel 2017, ha ricevuto la Menzione speciale della Giuria per la prosa. Vive a Roma.
In una notte illune di mezza estate noi due, Tu e Io, ci troviamo abbracciati nelle tiepide acque del Mediterraneo, quel mare che le nostre terre, l’Africa e l’Europa cingono tutto attorno.
L’imbarcazione che ci trasportava – in realtà due tubolari mal gonfiati, uniti da una fragile carena e da una tavola di poppa sulla quale mugghiava un fuoribordo spropositato – si è spezzata contro le onde a causa del carico eccessivo dei traghettati. Gli scafisti ci avevano stipati a bordo in ragione di quello che erano riusciti a estorcerci. Io ho consegnato loro quanto era rimasto dalla svendita di tutti i beni di famiglia e sono riuscito a far imbarcare anche te, salvandoti da uno stupro che hai scongiurato anche grazie al tuo evidente stato di gravidanza.
Insieme a noi c’è gente che fugge dai tanti luoghi della parte sfortunata del mondo dove una guerra o un potere dispotico esercitano un’insostenibile minaccia su molti degli abitanti. Altri non hanno né mezzi per vivere né la speranza di procacciarseli in economie nelle quali l’eccessiva crescita della popolazione e l’incalzare della crisi ambientale hanno fatto saltare tutti gli equilibri ancestrali. Intanto, il profitto di pochi, spesso estranei al paese e collusi con i potenti del luogo, erode le risorse comprando a poco prezzo le materie prime e i prodotti della terra, ora perfino i campi e le foreste per trasformarli in redditizie monocolture, e sfrutta i nativi con lavori da schiavi e forniture truffaldine dei beni indispensabili.
Durante un periodo di relativa tranquillità nella città dove siamo nati e vissuti avevamo potuto finalmente sposarci dopo un lungo fidanzamento. Siccome non si può stare insieme da soli fino a che la religione non avrà fatto di due uno solo, il fidanzamento si limita da noi a scambi di visite alla presenza dei parenti, e a invadenti sguardi pieni d’amore: è l’occhio che discorre. L’attesa aveva montato la passione; quando infine potemmo darle libero sfogo furono giorni e notti travolgenti, in cui riuscimmo a saldare la comunione dei nostri spiriti attraverso la fusione dei nostri corpi.
Presto, troppo presto però, tornarono gli armati per le strade e al cinguettio dell’usignolo e dell’allodola si sostituì il fischiare dei proiettili. Le armi leggere furono soppiantate dagli obici e dai cannoni dei carri armati. Dall’alto dei cieli piovevano bombe e granate. Alternandosi tra loro, droni delle potenze occidentali e cacciabombardieri russi e turchi si sforzavano di dimostrare il loro primato sulle nostre teste.
La città era diventata il terreno di scorribande e di scontri tra le varie fazioni in lotta. Un assalto più riuscito di altri portò degli armati ad atterrare l’uscio dell’abitazione della mia famiglia. Noi due riuscimmo a nasconderci in un anfratto sul terrazzo. Si sentiva chiamare soccorso ma invano, mentre di sotto tutti gli uomini venivano passati per le armi, i bambini sgozzati e le donne prima violentate, poi trucidate in quanto imperdonabili cause di peccato.
Andati via i guerriglieri, avevo cercato di risparmiarti la vista del massacro, ma i corpi straziati e il sangue erano dappertutto. Non potrò mai dimenticare l’orrore nel tuo sguardo e l’urlo soffocato che usciva dalla tua bocca: «Portami via! Portami via da qui!».
Mentre non è permesso ad alcuno scegliere dove nascere, dovrebbe essere un diritto di ognuno cercare di vivere in un luogo sicuro, e addirittura un dovere assicurare alla propria prole un luogo di nascita protetto. Chi non comprende questi principi basilari manca non solo di umanità, ma persino della capacità di ragionare mettendosi al posto di coloro che si trovano in condizioni di vita malsicure o insostenibili: è una manifestazione di deficienza mentale non meno che di menefreghismo. La controdeduzione usuale per cui sarebbe altrettanto un diritto difendere i privilegi propri e della propria discendenza abbassa gli uomini al livello degli istinti più meschini, se non davvero a quello delle bestie che difendono con ferocia il proprio territorio.
È per questi motivi che è solo degno della libertà e della vita colui che sa conquistare ogni giorno. Abbiamo così deciso di vendere tutto e di emigrare in Europa, là dove io ho fatto i miei studi universitari e ho imparato i principi dell’eguaglianza tra gli esseri umani e il diritto dei popoli a una vita degna d’essere vissuta. Tu, lettrice assidua dei capolavori della letteratura occidentale, frequentando i siti web sei cresciuta nella certezza che le democrazie europee sono accoglienti e tolleranti verso gli immigrati, almeno nella misura in cui hanno bisogno di manodopera a basso costo per le mansioni più umili.
Nell’impossibilità di seguire dei canali di migrazione regolari, che non esistono, ci siamo dovuti rivolgere ai trafficanti di uomini, i quali ci hanno trasportato a caro prezzo, in condizioni inenarrabili, sulle coste della Libia. Tutte le miserie si trovavano in quel corteo, come un caos: vecchi, adolescenti, crani nudi e barbe grigie, giovanette coi capelli che formavano riccioli, volti infantili, magre facce di scheletri alle quali mancava solo la morte. Da lì, dopo mille privazioni e la costante minaccia di essere abbandonati nelle mani dei miliziani, alla fine siamo riusciti a farci imbarcare su quello doveva essere l’ultimo ponte verso la nostra vita e la nostra libertà.
Siamo invece finiti in mare, in un’oscurità dilaniata dalle urla dei tanti che, non sapendo nuotare, annasperanno fino a che l’acqua non avrà riempito i loro polmoni. Noi siamo riusciti ad aggrapparci a una corda che pende dal relitto del gommone. Con cautela, io ti spingo sul tubolare mezzo sgonfio in modo che almeno tu e il nostro bambino che è in te possiate sperare di sopravvivere. Qualcuno, già al sicuro su quello, invece di ributtarti a mare aiuta i miei sforzi, dimostrando un sentimento umano che è anche l’affermazione del diritto alla vita delle nostre generazioni future.
Presto un silenzio di morte e di rassegnazione lascia il posto allo sciabordio incessante delle onde. Una nenia però s’innalza, e poi due, poi tre, in lingue diverse, tutte improntate dalla speranza che l’aiuto potrà arrivare solo se si avrà fede. Ognuno prega il suo dio come gli è stato insegnato, ribadendo così le sue relazioni con la cultura nella quale è stato allevato e, insieme, l’universale aspirazione al trascendente. È un pregare in comune, un bisbiglio di voci e di gemiti, che spira una tristezza mista pure di qualche conforto.
D’improvviso un faro di ricerca s’accende nel cielo ed esplora dall’alto la superficie del mare. Qualcuno di noi, appena prima del naufragio aveva di certo allertato il numero internazionale del soccorso in mare, dando la nostra posizione. È, forse, la salvezza implorata.
L’elicottero si abbassa e lascia cadere qualche giubbotto salvagente: lo stesso frullio delle sue pale li disperde sulla superficie del mare. Una voce distorta dal megafono e coperta dal rombo del rotore ci invita a stare calmi. Ci dice che loro non possono fare niente, ma che dovrebbero intervenire a salvarci le motovedette libiche, quelle stesse che salpando abbiamo dovuto eludere per non essere mitragliati. Ci augura buona fortuna in inglese, in tedesco, in francese, in italiano.
In un turbine d’aria e di schiume l’elicottero si solleva, spegne il faro di ricerca e poi, incurante delle nostre invocazioni, fugge rapido verso nord.
Non sarà quel che Iddio vorrà – come usiamo affidarci fatalisticamente in un nostro adagio – ma sarà ciò che degli uomini avranno deciso di fare o di non fare di noi. (*)
(*) Nel racconto sono inserite in corsivo delle citazioni, opportunamente adattate, tratte da:
• W. Shakespeare, 1594-96, Romeo e Giulietta: II,6, Frate Lorenzo; I,1, Romeo; II,2, Giulietta; III,5, Giulietta;
• J.W. Goethe, 1832, Faust: atto v, passim;
• V. Hugo, 1862 I miserabili: parte IV, libro III, VIII;
• A. Manzoni, 1827, I promessi sposi: cap. XXXIV.