Marisa Genovesi. E’ nata a Livorno dove vive. Fa parte di varie associazioni quali: F.I.D.P.A., 50&Più e A.N.P.A.I. Cessata l’attività di impiegata presso un Ente pubblico, ha scoperto la gioia di descrivere pensieri ed emozioni in versi e prosa e partecipa a concorsi letterari con positive affermazioni. Al Concorso 50&Più partecipa da qualche anno.
Persone semplici, guidate solo da concetti di giustizia, onestà e generosità, hanno compiuto atti eroici quando situazioni contingenti si sono presentate nella loro vita.
Recentemente ho conosciuto una di queste persone: il suo nome è Giuliano Ciaponi, del quale mi accingo a descrivere le gesta compiute durante la seconda guerra mondiale.
Dopo l’8 settembre 1943, i bombardamenti aerei sulla città di Livorno e il suo porto, divennero sempre più frequenti. La popolazione era sfollata nelle campagne circostanti, ed in particolare sulla collina di Montenero a sud della città.
Per sopravvivere le persone coltivavano ogni terreno disponibile, allevavano animali da cortile e praticavano ogni sorta di piccoli lavori, per contribuire ad alleviare lo stato di degrado e di sofferenza. I pochi uomini presenti si nascondevano per sfuggire ai rastrellamenti tedeschi per i campi di lavoro militarizzati e alla deportazione in Germania. Quelli che si erano nascosti nei boschi, per sopravvivere, facevano il carbone vegetale, unico combustibile esistente in quel periodo; erano in contatto con le formazioni partigiane presenti sulle cime boscose, con le quali collaboravano pur non essendo combattenti.
Giuliano Ciaponi ha sempre abitato, con la numerosa famiglia, nell’ampia casa ubicata sulla sommità della collina, compresa nell’esteso nucleo edilizio chiamato “Castellaccio”.
L’attività che all’epoca la famiglia esercitava era la gestione di un negozio adibito alla distribuzione di generi alimentari razionati, compreso il pane che veniva cotto nel forno presente nella casa; a ciascun abitante la legge assegnava un’insufficiente razione giornaliera.
Durante le incursioni aeree, gli abitanti abbandonavano le case per rifugiarsi in precari rifugi costruiti da loro stessi e ne uscivano quando il fragore delle bombe e della contraerea era cessato.
Nei primi giorni del 1944, una formazione di aerei bombardieri volava ad una quota relativamente bassa diretta verso la città; uno di questi fu colpito dalla contraerea tedesca e iniziò a precipitare in fiamme. Vedemmo aprirsi un paracadute al quale era appeso l’unico membro dell’equipaggio riuscito a lanciarsi; purtroppo si svilupparono delle fiamme al paracadute stesso che poi scomparve dalla nostra vista, dietro una collina.
Non ho mai avuto notizia di questo episodio e, soprattutto, se l’uomo riuscito a lanciarsi con il paracadute si fosse salvato.
Solo di recente, recatami con amici presso il ristorante Ciaponi, ubicato al Castellaccio, ho notato appeso nel vano dell’ingresso, un attestato in lingua inglese, datato 1945, firmato dal Generale Montgomery, dedicato a Giuliano Ciaponi.
Spinta dalla curiosità ho colto l’opportunità per chiederei delucidazioni in merito e con grande stupore, ho ascoltato il racconto che di seguito cerco di riassumere.
Dopo che la contraerea tedesca aveva centrato un aereo americano che precipitò in fiamme, un contadino vide giungere a terra un paracadute pure in fiamme, però l’uomo era ancora in vita e cercava disperatamente di liberarsene. Senza indecisione, il contadino corse in suo aiuto, poi lo condusse nel vicino bosco dove lo nascose; il soldato americano aveva urgente necessità di cure per le ustioni riportate, altrimenti non sarebbe sopravvissuto. Il contadino, dopo aver tolto dal terreno ogni resto del paracadute bruciato, si confidò con Giuliano, il quale decise di nascondere l’americano, per tentare di salvarlo, in un casolare adibito a stalla dove ogni giorno si recava per accudire al bestiame posseduto dalla famiglia.
Ma occorrevano anche i medicinali, e così, tramite persone fidate, fu contattato un medico, per averli, ma senza rivelare a che fossero destinati. Il medico portava i medicinali presso un Bar di Montenero, Giuliano li prelevava e come sempre si recava ogni giorno al casolare, dove oltre al bestiame, curava e nutriva l’americano, con il quale non conoscendo la lingua inglese, comunicava a gesti.
Tutto ciò mettendo a rischio la propria vita e quella dei propri familiari ai quali non aveva detto niente. I soldati tedeschi infatti, cercavano incessantemente di localizzare dove il paracadutista nemico , da loro avvistato, aveva toccato terra, per catturarlo.
Trascorse del tempo e Giuliano, poiché le ustioni non miglioravano, si rese conto che l’ambiente antigienico ostacolava la guarigione. Ritenne pertanto opportuno prendere contati con i partigiani operanti nella zona, con i quali fu deciso, in totale accordo, di trasferire l’americano presso la loro base, dove era possibile l’assistenza diretta di un medico del gruppo; durante la notte, con l’aiuto dei partigiani, venne effettuato il rischioso trasferimento.
Il 19 luglio 1944, il fronte superò le zone collinari e la città di Livorno, liberandole finalmente dell’occupazione tedesca.
L’americano si ricongiunse all’esercito, lasciando per Giuliano, che per salvarlo aveva rischiato la propria vita, una lettera di ringraziamento, con le proprie generalità e indirizzo.
Successivamente, con grande sorpresa, Giuliano ricevette l’attestato, a lui dedicato, come segno di gratitudine da parte dell’esercito degli Stati Uniti “per aver aiutato un soldato a fuggire alla cattura da parte del nemico”.
Tale riconoscimento lo gratificò per il pericolo corso e per tutte le ansie sofferte.
Il racconto ascoltato mi ha riportato la memoria all’immagine di quel paracadute che avevo visto scomparire in lontananza, già lambito dalle fiamme, quando ero una bambina. Ciò ha suscitato in me una certa emozione, perché il caso, al presente, mi ha concesso di conoscerne tutta la storia.
Oltre l’attestato già citato, a Giuliano Ciaponi, è dedicato pure un “Diploma di onore per la lunga attività di donatore di sangue”, poiché nei decenni trascorsi ha sempre trovato il modo di essere solidale con il prossimo.
Gli ho espresso perciò tutto il mio apprezzamento e l’incondizionata generosità dimostrati nella sua vita, nei confronti delle persone bisognose di aiuto.
Mi ha ricambiato con un amichevole sorriso, mentre con semplicità e naturalezza ha risposto con poche ma importanti parole: “Ho fatto il mio dovere!”.