Anna Genna. Insegnante in pensione. Lettrice appassionata, per lei scrivere è un modo di creare mondi nuovi, di condividere pensieri, riflessioni che, dice, “se non espressi con parole, resterebbero sconosciuti e svanirebbero con me”. Partecipa al Concorso 50&Più per la quarta volta; nel 2018 ha ricevuto la Menzione speciale della Giuria per la prosa. Vive a Trapani.
Mastru Manuele era il miglior ebanista di Palermo. Tutte le migliori famiglie palermitane avevano in casa almeno un mobile che usciva dalla sua bottega: anche solo un piccolo comodino dava lustro all’arredamento dei palazzi nobiliari o dell’alta borghesia.
Era bambino, quando fu portato dal padre nella bottega di un mastro falegname, per imparare un’arte e non fu accolto bene: “E’ troppo piccolo”, disse mastru Nzinu.
“Avete ragione, ma mentre, impara, v’aiuta. Non vi costa niente, un pezzo di pane e un letto”.
Manuele non era contento d’andar via da casa, fino a quel giorno era stato il più grande dei fratelli nella numerosa famiglia, ma un altro figlio era arrivato e bisognava fargli posto. Nell’unica stanza, che si apriva direttamente sul vicolo, vivevano in nove: padre, madre, sei bambini e la nonna materna. I piccoli dormivano tutti insieme e, con la nonna, dividevano un materasso di crine, poggiato su tavole di legno. A Manuele piaceva quella specie di ammucchiata, non c’era mai freddo e, specie d’inverno, il tepore dei corpi accostati lo faceva sentire al sicuro. La stanza era davvero piccola, ma tanto la vita degli occupanti si svolgeva in massima parte fuori, nel vicolo sempre affollato da frotte di bambini scalzi che tra giochi, risse e urla imparavano la quotidiana lotta della sopravvivenza; da donne che lavavano in tinozze con poca acqua e sapone, abiti consumati; da vecchi seduti, accostati al muro di casa, per prendere aria, dicevano. D’inverno, quando pioveva, la piccola stanza diventava un pollaio e, la sera, mentre la mamma cucinava una zuppa di patate per togliere la fame, la nonna raccoglieva quell’orda vociante di ragazzini accanto a sé e raccontava storie di fantasmi e di paladini che riuscivano a catturare i fiati dei piccoli ascoltatori. La sua voce si faceva, bassa e roca nel raccontare, cosi che i più piccoli si addormentavano sulle ginocchia dei più grandicelli. La nonna era ancora giovane, anche se i capelli bianchi e il nero degli abiti davano al viso un aspetto antico e severo. Era la sola a mostrare affetto per Manuele, senza baci né abbracci, ma con una veloce carezza sui capelli, con l’accomodargli la maglia dentro i pantaloni, quando gli passava accanto; quel nipote conservava nello sguardo qualcosa del nonno e lei nel guardarlo sentiva a volte la stessa emozione che aveva provato nel guardare gli occhi del suo uomo.
Il laboratorio del falegname divenne la nuova casa di Manuele, non rivide più nessuno della sua famiglia e, a poco a poco, anche la nostalgia lo abbandonò. Imparò il mestiere di falegname, tanto bene da farne un’arte. Nelle sue mani il legno era vivo. Le linee curve dei comò panciuti, gli incastri magistrali e le perfette proporzioni dei mobili che creava, erano apprezzate e richieste da chi voleva nella sua casa qualcosa di prezioso.
Il giorno che davanti alla bottega si fermò una carrozza, mastru Manuele non si sorprese e continuò a lavorare d’intaglio sul tanger che stava rifinendo.
“Sono il cavaliere del Regno Tumbarello Tommaso”, disse l’uomo che era sceso dalla carrozza, togliendosi il cappello e facendosi sulla porta del laboratorio. Poi avanzando, si andava guardando intorno, osservava con curiosità i mobili già finiti, da consegnare e, con cenni del capo e schiocchi di labbra, mostrava il suo compiacimento da intenditore.
“Voscenza benedica” salutò mastru Manuele, alzando lo sguardo “Vi posso servire in qualche cosa?”.
“I marchesi Salvo”, disse l’uomo, facendo una significativa pausa, “miei carissimi amici, mi hanno raccomandato voi come ebanista di talento. Ora, siccome io voglio un armadio speciale, un armadio costruito senza un chiodo, tutto incastri, come voi sapete fare, vi invito a venire a prendere le misure della parete del salotto su cui sarà appoggiato. Per la casa nuova che ho comprato in via Libertà, una villa di lusso, voglio solo il meglio e non bado al prezzo”. Concluse il cavaliere, scuotendo la mano come per allontanare eventuali difficoltà in tal senso.
Mastru Manuele abbozzò un sorrisetto mezzo divertito e pensava: non bada al prezzo chi pensa di non doverlo pagare. Questo cavaliere secondo me è senza cavallo. Ma disse con umiltà: “Vossignoria, mi comanda, ma come vede ho da finire questo tanger per il principe di Castelnuovo”, e fece anche lui una pausa, per sottolineare l’importanza del committente, “poi sarò servo vostro”.
“Ah, ah, per il principe, mio carissimo amico, mi faccio da parte. Mi direte voi quando… Aspetto notizie. A presto, dunque”.
E le notizie le cercò anche mastru Manuele: chi era mai il cavaliere Tumbarello Tommaso?
Ne venne a saper molto chiedendo, senza parere, agli artigiani palermitani, ai servi dei ricchi committenti a cui consegnava i mobili e agli stessi servitori del cavaliere. Il cavaliere Tumbarello era sicuramente un benestante, ma molti furono gli artigiani che vantarono crediti nei suoi confronti: trovava sempre modo di contestare difetti nel lavoro svolto, muratori pagati a metà del prezzo pattuito, decoratori cacciati come incompetenti, saldati con quattro denari e minacciati di ricorso al giudice. Uno dei servitori del cavaliere gli confidò davanti ad un bicchier di vino, che da mesi non riceveva il dovuto e che alla porta del cavaliere, quel giorno, un famoso tappezziere, che solo a metà era stato pagato per il suo lavoro, aveva fatto urla e ingiurie contro l’uomo chiamandolo imbroglione e ladro. Naturalmente il cavaliere aveva chiamato le guardie e il poveretto era stato allontanato con la forza. Mastru Manuele ne dedusse che se voleva tirar fuori denari dalle tasche di quell’uomo, doveva mettere in campo tutta la sua furbizia oltre che il suo ingegno e si mise a pensare.
La villa di via Libertà era davvero un gioiello dello stile liberty, era stata venduta da un nobile palermitano spendaccione, rovinato dal vizio del gioco e il cavaliere l’aveva acquistata a un prezzo da strozzino, vantandosi poi per il suo fiuto negli affari. Mastru Manuele vi giunse accompagnato da un garzone, che avrebbe dovuto prendere nota degli accordi sui tempi di consegna e pattuire il compenso.
Era mattina presto e il cavaliere si presentò nel salone senza cerimonie, in vestaglia scarlatta, ancora scarmigliato, con una tazzina di caffè che bevve lentamente senza condividerla con i due artigiani.
“Ecco la parete su cui sistemerete il mio armadio, intarsiato e decorato, dovrà essere una meraviglia per gli occhi”.
“Prendi le misure, Nino”, disse l’ebanista al garzone, “lunghezza, altezza e spessore”. Poi con un pezzo di carbone tracciò la sagoma sulla parete.
“Perfetto!”, esclamo il cavaliere. “Al centro della parete e di fronte alla porta d’ingresso. Non può passare inosservato”.
Il discorso proseguì per decidere il tipo di legname, il disegno degli intarsi, delle cere, del colore delle vernici, un’infinità di dettagli, oltre al compenso per il lavoro.
“Tutto il meglio, non bado a spese. Ma senza un chiodo deve essere fatto, senza un chiodo”, ribadì il cavaliere.
“Certo, ma il materiale così costoso, dovrà essere acquistato e pagato in anticipo”, disse il falegname, grattandosi la testa.
“Sciocchezze, pensateci voi, faremo poi un conto unico”.
“Volentieri vi servirei, ma questo è materiale che deve venire da fuori: legno stagionato che non si deforma e non si spacca, cere preziose, lamine d’oro. Io sono un povero artigiano non ho denaro per pagare e se non pago non arriva niente”.
“Via, via, basta. Quanto occorre per la spesa?”.
Con mezzo sorriso furbo e continuando a grattarsi la nuca, mastru Manuele buttò lì una cifra, alta in verità, pari a un terzo del compenso totale.
Il cavaliere ebbe un fremito alle labbra, che si contrassero come per un improvviso dolore; con occhio indagatore si soffermò a guardare in faccia il falegname, cercandovi una possibilità di accordo al ribasso, ma mastru Manuele guardava altrove, intorno a sé nell’ampio salone.
Ottenere un mobile di tale pregio per un terzo del suo valore era pur sempre un ottimo affare e: “Mi posso fidare del vostro giudizio, della vostra onestà? Si tratta infine di una notevole cifra.”.
“Come di voi stesso, cavaliere, come di voi stesso. Chiedete in giro chi è mastru Manuele”.
Ci volle un mese di tempo e di lavoro accuratissimo, ma giunse il giorno della consegna: l’armadio era pronto. Un mobile che non aveva visto pari a Palermo e dintorni a memoria d’uomo, perfetto in ogni minuzia ed era lì, appoggiato alla parete del salotto del cavaliere Tumbarello Tommaso.
Per far ammirare il mobile così prezioso e… costoso, il cavaliere aveva invitato per la serata, amici e notabili della città; ci sarebbe stata musica e allegria in casa ed egli avrebbe goduto di quella notorietà. Già sorrideva al pensiero dell’invidia sul viso grifagno del Prefetto, che lo aveva sempre trattato con sufficienza e, all’occorrenza, platealmente ignorato; si beava dei complimenti per il suo buon gusto, che le nobili dame gli avrebbero elargito con generosità anche esagerata; della maggiore considerazione degli uomini per la sua fiorente situazione economica. Ah, era felice!
Quando, però entrò nel salone il volto del cavaliere era severo e corrucciato, era sparito il sorriso soddisfatto ed egli si rivolse al falegname con voce aspra: “E questo sarebbe il capolavoro che mi avevate promesso? Questo mobilaccio mal fatto? Guardate voi stesso, quelle foglie di quercia intagliate tutte diverse tra loro, gli intarsi sui medaglioni delle ante hanno colori troppo variegati, di un pessimo gusto e, in ultimo, cosa gravissima, l’armadio risulta essere di ben due centimetri più alto. Sono dolente, mastru Manuele, voi non meritate il compenso pattuito, dovreste anzi pagarmi i danni”.
Il falegname, in piedi col cappellaccio in mano e la cassetta degli attrezzi davanti iniziò a dire: “Eccellenza, vi pare che non sappia già quello che voi dite? Ma le foglie in natura non sono tutte uguali, ognuna ha una sua particolarità e questo le rende uniche, vere; gli intarsi, eccellentissimo cavaliere, son fatti con legno di rosa, il più pregiato e ricercato proprio per la sua varietà di luce e l’altezza poi è cresciuta, perché i piedi del mobile non toccano il pavimento, per tenerli al riparo dall’umidità del terreno. Via eccellenza, questo mobile è perfetto, senza colla e senza chiodi. Voi mi dovete l’intero compenso”.
“Insolente, miserabile, osate anche pretendere, lasciate l’armadio e andate via, tenetevi soddisfatto della spesa che ho anticipato”.
“Chiedo perdono per le mie parole, vossignoria è padrone, se vuole che io vada via, almeno mi deve permettere di non essere pagato perché ho davvero sbagliato. Un chiodo, un solo chiodo e vostra eccellenza potrà darsi ragione del rifiuto. Lo metterò in una parte nascosta, ma potrò dire così che l’opera mia non è perfetta. Poi me ne andrò senza protestare”.
Al cavaliere non sembrò vero di poter chiudere il litigio con così poco danno. Un chiodo! Nessuno l’avrebbe notato, in un punto nascosto poi…“Se questo può mettere a posto la vostra coscienza”, disse rabbonito, “ve lo concedo”.
Mastru Manuele, si chinò sulla cassetta degli attrezzi, prese un piccolo martello, un lungo chiodo sottile senza punta e salì su uno sgabello; il suo volto era impassibile, ma nei suoi occhi balenava un lampo malizioso: “Vado?”, chiese al cavaliere. “Fai, fai, purché non si veda.”.
Un colpetto, leggero, poi un altro e un terzo… L’armadio si aprì come un fiore che sboccia e completamente disarticolato si abbatté sul pavimento.
Senza colla e senza chiodi, l’armadio era tenuto insieme da una lunga zeppa, che attraversando il tetto ne incatenava le ante con una serie di incastri perfetti; il lungo chiodo, spostando la zeppa, aveva rotto l’equilibrio dell’intera struttura che era crollata in un secondo.
Il cavaliere dapprima inebetito dal disastro, si diede poi a fare salti e lanciare insulti al falegname: “Delinquente, imbroglione, in galera ti mando, ti uccido con le mie mani”.
Il falegname si riparava dai colpi che il cavaliere menava a destra e a manca cercando di afferrarlo e intanto diceva: “Era perfetto l’armadio, stu chiovu non ci voleva. Fu vossignoria a volerlo imperfetto, le cose male fatte non durano”.
Tornato a segno di ragione, il cavaliere Tumbarello Tommaso fu preso dall’angoscia: gli si presentò alla mente la rovina dei suoi progetti serali; il volto compiaciuto del prefetto davanti alla sua disfatta; i risolini divertiti dei nobiluomini e delle dame davanti a quello sfascio; il chiacchiericcio, i pettegolezzi, che dall’indomani l’avrebbero reso ridicolo davanti a tutta la Palermo “bene”. Ebbe un mancamento e si accasciò su una poltrona: “Sono rovinato!”, esclamò. “Io me ne vado”, disse mastru Manuele, “il legno ve lo lascio, voi l’avevate già pagato, è vostro”.
“Dove andate? Non potete lasciarmi? L’armadio va rimontato al più presto, prima di sera, dovete rimetterlo in sesto, aspetto gente di rispetto, verranno per ammirare il mobile”.
“Cavaliere, io cose imperfette non ne faccio, lo posso rimontare prima di sera, ma senza chiovu, e voi mi pagherete, prima di iniziare il lavoro l’intero compenso, più il rimontaggio”.
Non si poteva far altro, se voleva salvare il suo onore doveva cedere e lo fece.
Col volto contratto, il cavaliere Tumbarello Tommaso contò il denaro su un tavolo, una banconota sull’altra, sotto gli occhi attenti del falegname, il quale alla fine intascò il compenso e lasciò sul tavolo due banconote dicendo: “Grazie cavaliere, picchi è lei ci fazzu u scuntu”.
Non mostrò alcuna gratitudine il viso del cavaliere, alla fine del lavoro accompagnò alla porta il falegname; si massaggiava lo stomaco con mano tremante e, chiudendo l’uscio, gridò alla cuoca: “Fifì, pi’ stasira roba leggera, mi raccumannu.”.