La carriera delle donne è una strada tutta in salita. Una specie di slalom tra pavimenti appiccicosi – i cosiddetti sticky floors che le tengono incollate a ruoli secondari – e soffitti di cristallo che bloccano la loro salita verso i vertici. Succede in Italia come nel resto nel mondo, ma è ancora più evidente nei Paesi in cui è chiara l’impronta patriarcale sulla cultura di massa.
Eppure, anche quando le donne riescono ad arrivare in cima – dunque, a ruoli apicali – non di rado incontrano difficoltà ad essere accettate dai loro colleghi uomini. A dirlo è uno studio condotto da Badenoch + Clark in collaborazione con JobPricing dal titolo Women in charge. Analisi delle differenze di genere ai vertici delle imprese. Stando a quanto si legge al suo interno, un uomo su quattro ha difficoltà ad accettare un capo donna. E, come se non bastasse, la stessa ricerca sottolinea che, in media, viene chiesto a una donna di essere più performante di un uomo per poter raggiungere lo stesso risultato.
Abbiamo, perciò, parlato di questo e, più in generale, di Gender Gap con la professoressa Azzurra Rinaldi, Head of the School of Gender Economics nonché Senior Researcher of Economics, Economics of Emerging Countries and Tourism Economics presso l’Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza.
Professoressa, partiamo col fare chiarezza. Cosa si intende col termine Gender Gap?
Il Gender Gap, detto in termini economici, è una distanza dall’efficienza. È il fatto che alcune posizioni sono precluse alle donne: posizioni al vertice, posizioni di gestione. Nel dettaglio, ciò che analizziamo di più è il Gender Pay Gap, ossia la disparità salariale, cioè il fatto che gli uomini – a parità di mansione – vengono pagati di più.
Questo succede in tutti Paesi?
In alcuni Paesi di più, in altri un po’ di meno. Figurarsi che in Paesi come il nostro, fino al nuovo Disegno di Legge – che è quello di Chiara Gribaudo -, non c’era nemmeno contezza di una simile disparità di trattamento economico: le aziende private non erano tenute in alcun modo a rilevare al proprio interno – né a comunicare all’esterno – se ci fosse, appunto, una disparità salariale tra uomini e donne. La prateria delle disuguaglianze.
L’Istat ci dice che c’è una disparità salariale di tremila euro annui tra uomini e donne. A cosa è riconducibile questa differenza di trattamento?
Purtroppo è riconducibile a un sistema di valori che è figlio di un sistema patriarcale. Tutto è legato al tema della maternità, al fatto che in alcuni sistemi che sono particolarmente patriarcali – penso all’Italia, a gran parte della fascia del Mediterraneo, penso ai Paesi in via di sviluppo – alla fine, il ruolo che la cultura attribuisce alla donna è quello di madre. In letteratura parliamo di Childhood penalty, ossia la penalità legata alla maternità perché, quello che vediamo analizzando i dati sul mondo del lavoro, è non tanto e non solo il fatto che le donne patiscano uno svantaggio, ma il problema più grave si pone quando tu ti riproduci. Per le donne, quando diventano madri, improvvisamente cala il tasso di occupazione; al contrario, per gli uomini, quando diventano padri, vedono salire il cosiddetto Paternity Bonus, il tasso di occupazione.
Questo perché?
Perché, in una mentalità patriarcale, il momento in cui tu ti riproduci, sei fondamentalmente la mamma e quindi al massimo ti puoi tenere un lavoretto part-time o adesso in smart working. Il ruolo del maschio è quello di essere un bancomat: quello di portare a casa i soldi. Qui vediamo come il patriarcato, in realtà, snaturi gli esseri umani perché non è bello, né per gli uni né per gli altri, questo incasellamento e ciò è rafforzato, nel nostro caso, dalla normativa.
Cosa intende esattamente?
Se abbiamo una normativa che prevede che ogni volta che nasce un bambino o una bambina, dieci giorni di congedo obbligatorio vadano al papà e cinque mesi di congedo obbligatorio siano per la mamma, instauriamo una serie di meccanismi per cui il padre non diventa mai padre – salvo rare eccezioni – e la mamma – che magari era attivissima fino a un mese prima – si ritrova questi cinque mesi a casa, da sola e questo, dal primo figlio, mette in moto un meccanismo di presa in carico totale della famiglia e della casa che poi le coppie faticano a riportare alla normalità.
Però, anche quando le donne riescono ad arrivare in cima, a ricoprire ruoli al vertice, incontrano non pochi ostacoli.
È un lavoro culturale quello che noi dobbiamo fare. Ma attenzione, non dobbiamo farlo sulle donne: dobbiamo farlo sugli uomini. Quando noi parliamo della presenza delle donne nei ruoli apicali, è anche un tema di efficienza, perché le donne studiano di più, si laureano prima e con voti più alti. Almalaurea – che ogni anno raccoglie dati sui laureati e sulle laureate – dice che il voto medio di laurea delle donne è 104, quello degli uomini: 102. Il che vale a dire che noi non stiamo utilizzando al meglio tutte le risorse che abbiamo in campo. Inoltre, quando diciamo che ci devono essere più donne nei ruoli apicali è anche perché è un tema di rappresentanza. Si chiama Mentoring Hypothesis: quando tu vedi che ci sono delle donne in un ruolo apicale, questa condizione si normalizza. Si normalizza per le donne e quindi anche per le bambine (apre loro uno spettro di possibilità). E si normalizza per gli uomini, che non si stupiscono più se vedono la donna al vertice. In Accademia, il mio collega è professore e io, dottoressa. È un tema di piccola quotidiana rivoluzione culturale.
Un tema che andrebbe affrontato anche nelle famiglie…
È curioso, eppure esistono uomini che patiscono il fatto che la compagna guadagni più di loro. L’uomo che in coppia oggi soffre se la compagna guadagna di più è ancora vittima di un sistema patriarcale. Voglio dire: perché non dovresti essere contento se hai qualcuno vicino che guadagna tanti soldi e che poi, bene o male, redistribuisce all’interno della famiglia? Perché ti hanno convinto che quello sia il ruolo tuo. Ciò vale a dire che nella trasformazione culturale che noi dobbiamo portare avanti, dobbiamo pensare che la parità di genere porta alla liberazione delle donne dagli stereotipi ma anche alla liberazione degli uomini.
Laddove le donne hanno migliori livelli di occupazione, ci sono vantaggi per le famiglie?
Eccome. Nei Paesi in cui le donne lavorano di più, il tasso di natalità è più alto. Noi che in Italia facciamo tanta retorica sulla famiglia, sul calo demografico – l’Istat lo definisce “inverno demografico” – il problema è come fa una famiglia a fare uno o più figli con uno stipendio solo. Poi c’è una cosa che in letteratura chiamiamo Bargaining power (potere contrattuale): può piacerci o meno, ma chi guadagna ha voce, chi ha reddito ha più voce. È tremendo, ma è così. Le donne che hanno autonomia economica riescono a far sentire la propria voce sulla salute propria, la salute dei figli e persino sull’alimentazione – un’alimentazione più sana -. Come a dire che la voce delle donne aumenta quando guadagnano.
Riassumendo: carriere in salita, discontinue, spesso, per via della maternità e difficoltà anche una volta raggiunto il vertice. Come se ne esce?
Con la responsabilità condivisa: uomini e donne. Vanno appunto fatte due cose. C’è un bellissimo disegno di legge del senatore Tommaso Nannicini sul congedo di paternità obbligatorio per equiparare totalmente il congedo di paternità al congedo di maternità. Non è cosa secondaria perché, da un lato, consenti finalmente ai padri di fare i padri e, dall’altro, poni le basi di una vera rivoluzione culturale perché anche i padri si prendano cura finalmente dei figli sin dalla nascita. Inoltre, non crei più il modello per cui il figlio è della mamma ma crei un modello sano per cui il figlio è di entrambi i genitori. Al tempo stesso togli la distorsione sul mercato del lavoro. Non stupiamoci se al momento dell’assunzione un’azienda sceglie un uomo piuttosto che una donna. Perché dovrebbe essere propensa ad assumere una donna che ogni maternità se ne va per cinque mesi piuttosto che un uomo che in paternità se ne va per appena dieci giorni? La seconda cosa è iniziare a fornire seriamente dei servizi a sostegno della famiglia: asili nido, scuola dell’infanzia, estensione fino alle sei dell’orario scolastico.
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