Giuseppina Gatti.
E’ nata a Foggia dove vive. Commerciante in pensione con la passione per la scrittura. Nel 1960, tramite la Rai è stata opinionista per un anno e per premio le fu inviato il libro Club selezione Breviario del successo, edizione 1958 e due acquerelli su carta di Michele Cascella del 1963, opera San Francisco e Parigi, che tiene ben custoditi. Partecipa per la sedicesima volta al Concorso 50&Più; nel 2021 ha ricevuto la Menzione speciale della giuria per la prosa.
Ora accadde che, quando Pinuccia venne ad abitare con le cuginette; queste si trovarono in imbarazzo, perché nella casa c’era un’altra piccola Pinuccia, della quale non era giusto che si usurpasse il nome, ma dopo qualche giorno di malintesi e di buon volere da tutte le parti; restò alla nuova arrivata il nome di Pinuccia e alla minore diciamo all’autentica, il nome di Pinucciapiccola.
Pinucciapiccola non si offese, anzi ci trovò gusto.
Era una personcina intelligente e indipendente; e poi era troppo sicura che Pinucciagrande con i suoi sedici anni, se pur le portava via il nome, non le avrebbe portato via il suo grande amore. Chissà se l’aveva l’innamorato la nuova venuta? Invece Pinucciapiccola l’aveva.
Ed era bellissimo. E si chiamava Pierpaolo, il più bel nome che si possa dare ad un uomo.
Le loro mamme credevano che fossero amici come l’anno prima, anzi come tanti anni prima.
Infatti le apparenze erano identiche: facevano la strada insieme per andare a scuola, si trovavano per giocare a tennis; ma il cambiamento era tutto dentro.
Pinucciapiccola allungò la zazzera da maschietto in due pazienti trecce lucide intorno al capo e Pierpaolo si buttò indietro i capelli prima spioventi fin sugli occhi, perché a lei piacevano gli uomini dall’espressione molto intelligente, cioè con la fronte spaziosa, luminosa: “che bel giovane si fa il tuo figliolo”, – diceva la mamma di Pinucciapiccola alla mamma del ragazzo.
“Oho, quindicianni, è l’età”, ammetteva l’altra, modesta. Ma per quei tredici e quindici anni, i due ragazzi facevano cose che bisognava riconoscere – proprio non erano da figlioli modello: cose che a
metterle in pubblico avrebbero destato critiche da far arrossire.
Una fu questa: che un giorno, invece di salutarsi e poi subito andarsene ciascuno per proprio conto, Pinucciapiccola dimenticò di levare la mano da quella di Pierpaolo e lui di lasciarla andare; una dimenticanza che durò almeno un minuto: non un minuto secondo, ma ben sessanta secondi.
Un’altra fu assai più grave. Era l’onomastico di Pierpaolo, ed ecco che Pinucciapiccola, che gli aveva fatto gli auguri il giorno prima, si mise in testa di tornaglieli a fare, freschi della giornata, perché gli auguri, come i panini, se sono proprio del giorno, sono più profumati e saporiti.
Pinucciapiccola s’aggrappò al telefono, era miracolosamente sola in casa e chiamò Pierpaolo.
Gli rispose il padre.
Certo è noioso che rispondano questi benedetti padri, nonostante sia abbastanza giusto, perché il telefono funziona a loro spese.
Pinucciapiccola sentì la grossa voce e tirò fuori dal profondo un’altra grossa voce.
“Sì, deve darmi un’indicazione del problema. Sono un suo compagno… Sono… Gianpiero, sì, ecco”.
Pierpaolo venne al telefono. “Ciao, caro tanti, tanti auguri!”. Aveva finito. Trac, A chi li diceva lui, ora, i dati del problema? Ai fili del telefono? Passano tante bugie lungo tutti quei chilometri di metallo! Successe poi che Pinucciapiccola si fece fare la fotografia e la regalò a Pierpaolo, prestandogli un libro.
Era bella, proprio molto bella, bisognava ammetterlo.
Tutti i fidanzati posseggono una fotografia, vero? Sì, certo; mi pare proprio indispensabile. Non ne erano proprio sicuri, come non erano sicuri di tutto ciò che si usa, d’altro, quando si è fidanzati.
Non erano esperti, non leggevano molto libri e del resto sapevano che dei libri c’è poco da fidarsi. Avevano poi tutti e due delle mamme qualsiasi: voglio dire di quelle mamme che si curano soltanto dei loro figli, sempre lì a pulire i loro vestiti, a pensare al loro avvenire, a commuoversi se portano a casa una bella pagella; e che non fanno ricevimenti, e che non hanno amiche che parlano di fidanzati.
“Ti darò anch’io la mia fotografia” – disse Pierpaolo. Non aggiunse quando, perché doveva prima fare dei conti: aveva in tasca per il momento, solo qualche lira. Ma intanto quella sera Pierpaolo rincasò in ritardo. E suo padre – suo padre il terribile – lo ricevette con una strapazzata.
Era stato a scuola a prendere informazioni, ma non era più lui quel ragazzo! Uno studente che non s’era lasciato sorpassare da nessuno, che doveva intascare la licenza ginnasiale con l’esonero delle tasse, così come prendere una mela da un ramo basso.
A che pensava? Che compagni frequentava? E quello della telefonata, per esempio, chi era? Pierpaolo tremò, abbassò il capo, tossì, andò a letto, gli facevano male le spalle, non la coscienza, come insisteva suo padre: un dolorino che s’insinuava tra le scapole, e lo sentiva talvolta anche facendo i compiti. La mamma voleva sapere di che si trattasse, ma Dio mio, non era proprio nulla.
E poi, a cominciar a dire, la mamma domanderebbe tante e tante cose… le donne, sempre vogliono sapere troppo. Al mattino tutto era passato, insieme alla paura.
Si vestì per andare a messa con i calzoni lunghi e senza cappello. Mentre entrava in chiesa, con suo padre a destra, Pinucciapiccola e Pinucciagrande entravano a sinistra.
Si videro, tutti e quattro, e, mentre si salutavano Pierpaolo si gettò indietro, con un bel gesto, il ciuffo biondo.
Pinucciagrande lo guardò e gli sorrise. Non fu che un gesto. Ma il padre lo notò, lo misurò, credette di capire tante cose.
Davanti ai suoi occhi balenò l’acciaio di una lama.
“Qui ci vuole il rasoio”, si disse. E l’ordine fu di radere tutti i capelli. Nessuno poté discutere l’ordine. Quando Pinucciapiccola rivide Pierpaolo, il ragazzo era disperato.
E allora fu lei che lo supplicò – almeno – di farsi fare prima la fotografia.
E siccome quello non era proprio il momento di avere del falso orgoglio, fu lei a fare l’offerta del denaro per l’ideale comune; – e lo mandò dal fotografo.
Ridotto a una rapa, piacque a suo padre. “Adesso penserai solo a studiare, e le ragazze le lascerai sorridere per loro conto”.
Oho! I grandi non sanno che cos’è l’amore. Ma Pinucciapiccola non era volubile, e lui sarebbe tornato presto come prima.
Invece non tornò come prima. Morì. Fu per quel dolorino. Ci s’arrabbiò per quel “nulla”, ad essere così disprezzato.
Mise gli artigli: gli s’afferrò a tutti e due i polmoni. Otto giorni. Il ragazzo diceva solo “mamma”, “Pinuccia”, otto giorni suo padre lo vegliò, il suo terribile padre.
E sua madre si ammalò. Dopo vollero fare delle fotografie di lui, perché lo ricordassero gli amici e le amiche. Ma di fotografie recenti non c’era che quella degli ultimi giorni di scuola, brutta, con la testa rapata.
“Non mi piace disse proprio lui”, il babbo. C’erano in casa loro, i vecchi amici e le due Pinucce. Pinucciagrande ricordò: “aveva una bella capigliatura”. Anche il padre ricordò quel giorno. E guardava la giovanetta chiudendosi dentro un sospiro.
Allora avvenne questo: Pinucciapiccola si staccò dalla mamma, si portò muta e pallida davanti a quel padre tremendo, che faceva la voce grossa al telefono e comandava di rapare le teste ai ragazzi innamorati.
Aprì la borsettina di pelle, tirò fuori il filo d’una cucitura, scoprì uno spiraglio, ne fece uscire un cartoncino, gliele porse.
Vi sorrideva Pierpaolo, spavaldo sotto la sua bella chioma all’indietro.
Il padre di Pierpaolo la guardava gravemente, ma non le faceva paura.
A lei non faceva paura nessuno. Gli disse, gentile e triste: “La tenga pure, se le fa piacere”.
Io ne ho un’altra.