Giuseppina Gatti. E’ nata a Foggia dove vive. Commerciante in pensione con la passione per la scrittura. Nel 1960, tramite la Rai è stata opinionista per un anno e per premio le fu inviato il libro Club selezione Breviario del successo, edizione 1958 e due acquerelli su carta di Michele Cascella del 1963, opera San Francisco e Parigi, che tiene ben custoditi. Partecipa per la quindicesima volta al Concorso 50&Più sempre con lo stesso entusiasmo.
Meglio sarebbe poter andare a piedi, quando la meta di un viaggio è fosca. Camminare, ansare, non isolarsi in un angolo di vettura zeppa e calda. Nella soffocazione il pensiero lima, uncina, rode, sconvolge.
Il pensiero per quella cosa per il quale il vecchio è stato chiamato. Se è stato chiamato, è perché il ragazzo è in fin di vita. L’aveva lasciato da pochi giorni, giacente in un letto dell’immenso ospedale, ove era stato trasportato dal paese, con diagnosi (riservata). Poi pareva andasse meglio, e lui, Michele, aveva voluto che il padre partisse. Aveva insistito, amorosamente, ma con la voce ferma, di sofferente non vinto.
Preferiva che si recasse a provvedersi di piccole cose necessarie a un più lungo soggiorno, preferiva qualche giorno di solitudine, di un assoluto e vuoto riposo tra il succedersi delle cure intense e continue. Gli sorrideva, parlando, quasi con affettuosa e mesta malizia, quasi con la fretta di mandarlo via.
Chi sa che cosa gli passava nella mente: chi sa che cosa passa nella mente di coloro che sanno vicina la fine! E neppure aveva fatto in tempo a riposare del lungo viaggio, che già il triste richiamo era venuto a affrettarne il ritorno ed era così stanco, il padre, e così vecchio, ora! Un cencio senza volontà, un tronco senza fronte. Michele suo era la forza della sua vita, era tutta la verde chioma del suo ossuto tronco.
Partendo egli si portava via tutta l’anima del vecchio. La gioia di avvincerlo a sé negli anni del tramonto, l’orgoglio di averlo cresciuto bello, colto, brillante, coraggioso, la soddisfazione di potergli offrire l’agiatezza della sua faticata vita. Era pronto a servirsi di questa agiatezza per ricominciare a sostenerlo, come quand’era bambino, come quando era stato per il suo ragazzo, paterno e materno, poiché la madre l’aveva così presto preceduto nel passaggio.
Quanti chilometri mancano ancora? La notte ha ceduto all’alba, che biancheggia perlacea tra le brume della pianura. Poi rosseggia l’aurora tra propaggini di monti. A Michele egli ha sempre dato quanto ha potuto. S’erano voluti sempre bene, erano stati due virili amici. Tutto il padre aveva fatto per la sua felicità. Sempre. Salvo, forse, quando s’era trattato di Elda.
E d’improvviso il ricordo di Elda gli riempì il cuore di angoscia. Se avesse saputo che la vita di Michele doveva essere breve, non si sarebbe opposto all’amore giovanile e un poco pazzo del fanciullone preso dalla sua prima passione. Ma egli aveva agito per il bene di Michele, per riservargli la possibilità di un matrimonio degno della sua vita avvenire.
Elda, la piccola donna modesta, così modesta che nemmeno Michele aveva osato presentargliela, doveva aver lasciato tenue solco. Subito dopo era venuta la chiamata per il concorso vinto ed il trasferimento. Ed ora stava per venire un altro tempo tremendo, nel quale il vecchio sarebbe stato solo, desolatamente, inesorabilmente solo. No, non vuole scendere, ora che è giunto alla meta. Vuole aspettare ad essere certo del tremendo destino. Ma invece deve correre, perché forse Michele non può partire così, senza far animo al babbo con la sua forza di morente non vinto.
Michele non aveva più niente da dirgli, quando il vecchio arrivò: giaceva immobile per sempre, chiuse le palpebre sui lineamenti forti. Fu accompagnato con dolci, inutili parole di rassegnazione, in una stanza ove potesse riaversi, farsi forte per le esequie, tornare a casa.
A casa? Mai più avrebbe avuto voluto il coraggio di ritornare, mai più avrebbe voluto vedere persona, vedere la vita procedere nel sole e nell’amore. Si riebbe soltanto per desiderare di morire. Ma, riprendendosi, vide nell’ampio vano d’una finestra della sala una figura di donna, china su se stessa e che gli voltava le spalle.
Pareva accorgersi ch’egli si riprendeva perché si volse, e allora fu evidente ciò che ella stava facendo. Aveva in grembo un neonato che gli dava il suo latte. Era pallidissima in volto, con gli occhi troppo grandi nelle livide (occhiaie), ma circondava il corpo del bimbo in atteggiamento soave, che quasi annullava l’aspetto doloroso della sua persona smunta.
Quando, nel movimento che ella fece, al bimbo sfuggì il seno materno, ella sorrise offrendoglielo. Poi guardò il vecchio con gli occhi brucianti. Ed egli sentì il richiamo di quello sguardo. Si alzò e andò verso di lei. Quando le fu accanto, al vecchio parve che facesse della corazza a se stessa e nel medesimo tempo riparasse il bimbo nel suo amplesso protettore.
In quell’atteggiamento, la donna pianissimo parlò: io sono Elda. Egli tremava in tutte le membra perché gli tremava il cuore! Michele ci ha detto di restare ad aspettarla. Siamo sua moglie e il suo bambino.
Nella nebbia che gli avvolgeva il cervello, il padre di Michele ebbe chiaro un solo pensiero di vergogna per se stesso, che aveva negato al suo ragazzo la felicità obbligandolo a carpirla nascostamente, facendo a meno di lui. Vagava lo sguardo inquieto sul volto di Elda nel quale i lineamenti parevano consumati dall’espressione degli occhi, dolorosissima eppure non tragica, con un fondo di calma eroica. Si capiva che ella, travolta dal turbine della morte, aveva vinto già, perché si aggrappava a una vita.
Noi non potevamo non amarci. Io non potevo negargli la felicità. Ecco ciò che lui non aveva fatto, la piccola donna aveva saputo fare. Eravamo tanto ricchi di felicità. Di null’altro, forse, erano stati ricchi. Ed egli sentì una immensa pietà di se stesso, con la inutile agiatezza della sua inutile vita. Elda disse ancora, sollevando il bimbo dal seno: si chiama Michele, mai quel nome era stato pronunciato con più grande religione d’amore. Allora una calda fiamma viva fasciò il cuore del vecchio.
Tese le mani benedicenti sul capo della coraggiosa e piccola donna e sul bimbo nel quale, al di là della morte, come tornando dalla morte, Michele ricominciava la vita; poi, in un tremante gesto di devozione, si avvicinò a loro e con un abbraccio li cinse entrambi. E si sentì aggrappato ad essi, come i morenti s’aggrappano alla vita.