Giuseppina Gatti.
E’ nata a Foggia dove vive. Pensionata, partecipa per la quattordicesima volta al Concorso 50&Più sempre con lo stesso entusiasmo.
Cara nonna,
amore mio prediletto. Adesso ti scrivo dalla tua poltrona, dal tuo posto a sedere più confortevole, dal tuo trono di regina da cui eri solita controllare il mondo e l’ordine delle cose, da cui guardavi la tv e ti voltavi a chiacchierare con gli ospiti di turno. Ti scrivo dalla casa in cui tutto è cominciato, dalla culla dei miei ricordi più belli di te e di nonno, dal luogo in cui ogni cosa, adesso, mi parla di te.
Quattro giorni fa, in pronto soccorso, ti tenevo la mano. Cercavo di carezzare il calore della tua carne così provata, di lenirne con un gesto lieve le ferite. Poi ho cercato i tuoi occhi, ti ho mostrato le dita della mia mano e ho esclamato, con uno sguardo d’intesa: 1 “I palett!”. E tu, dal tuo letto d’ospedale in cui non riuscivi a trovar pace, mi hai risposto fiera, con un filo di voce e un sorriso tenue sulle labbra: “Ricordati che la prima a prenderti in braccio sono stata io”. Che onore, nonna. Non avrei potuto affacciarmi per la prima volta alla vita in maniera più dignitosa di questa. Eri regina già allora. E nella mia mente immagino te che mi sollevi con protezione e cura, con gli stessi modi che una regina usa con la sua principessina appena nata.
Fortunata sono stata io, nonna. Una privilegiata, una prediletta. Cresciuta da una madre strepitosa, figlia di una madre eccezionale. Il tuo garbo, la tua compostezza, la tua finezza. La tua nobiltà, la tua mitezza. Un convoglio unico di qualità intellettuali, comportamentali e spirituali in un corpo bello, splendido, “aggraziato”, come il nome che per te è stato scelto.
Mi piacerebbe fare un elenco dei ricordi più belli che io e te abbiamo costruito assieme. Ma come si riassume una vita su qualche foglio di carta? Come si condensa un vissuto in pochi schizzi di inchiostro? Da dove parto? E soprattutto, può la scrittura restituire e trasmettere a te in maniera fedele ed efficace quel che si muove nel profondo di me? Non lo so, nonna. Probabilmente no. Ma io ci proverò lo stesso, scriverò lo stesso per te. Voglio confidare nel fatto che, qualora un’arte, un’opera prettamente umana come quella di scrivere, non sia in grado di farsi veicolo perfetto del sentimento e del pensiero, a sopperire intervenga la comunanza del nostro sentire, l’unione continua e misteriosa dei nostri cuori, di me e di te, “che restiamo vicine anche quando siamo lontane”, per citare, in maniera quasi fedele, la descrizione che accompagna il ciondolo a cuore doppio che una ventina di giorni fa mi hai regalato per il mio onomastico. Dopo averlo comprato, indossato e avertene illustrato il significato, tu mi hai sussurrato dolce, adagiata nel tuo lettone della camera da letto per dar quiete alle membra stanche: “È proprio così”. La nostra promessa per sempre, la nostra promessa per l’eternità, nonnina. Il mio cuore sarà la tua casa per l’eternità, e il tuo cuore, spero, la mia.
E allora da dove comincio? Dalle crostatine alla marmellata, con tanto di stampini, “mia” prima opera culinaria sotto la tua attenta supervisione? Dai giochi miei e di Betta in cameretta, quando a turno ci fingevamo superdottoresse piene di esperienza e pazienti piene di acciacchi e riempivamo i quaderni di ricette mirabolanti e medicine inventate di sana pianta? Dai quaderni interi che io ho riempito di schizzi di vestiti? E quanto ti piacevano, nonna mia bella! Tu, straordinaria sarta dalle mani di seta, lodavi il frutto delle mie estemporanee creazioni, di quei disegni imperfetti, e che a detta tua nascondevano il potenziale di una stilista, qualora lo avessi voluto. “Questi te li devi prendere tu”, mi hai detto un po’ di tempo fa, quando hai estratto dalla polvere del tempo quei quaderni fatati e me li hai fatti rivedere. Lo farò, nonna. Li custodirò gelosamente come gioiello prezioso, come sigillo di una infanzia resa costantemente dolce dalle tue premure, dalla tua tenerezza, dal suono armonioso della tua voce che mi chiamava: “Pissetta!”. E di quando, piccola piccola, seduta sulle tue gambe, mi dondolavi scherzosamente? Ti ricordi? Un fotogramma impresso nella mia testa mi porge l’immagine di noi due che facevamo questo gioco una mattina di sole fuori al balcone. Lo stesso balcone da cui aspettavamo insieme l’arrivo delle rondinelle, 2 nò.
Il balcone su cui, quando arrivava primavera, era diventato rito riunirci tutti assieme e guardarle svolazzare nel cielo della piazzetta, schiamazzare, correre, rincorrersi, girare. Il balcone da cui io, osservandole seduta nel passeggino, sbattevo forte le braccia quasi volessi volare insieme a loro, come loro. E voi tutti che ridevate. Anche ultimamente è capitato di trovarci a godere insieme dello spettacolo delle rondini che arrivavano a sera, in circolo, strepitanti, affamate di vita. Solo che le abbiamo viste dalla finestra del soggiorno, e tu dicevi che oramai erano diventate sempre meno, forse colpa di questo clima pazzerello.
Sarta straordinaria, ho scritto sopra. E delle tue abilità culinarie non dovrei far menzione? Ho amato la tua cucina sin da bambina, la nò. Le lasagne, in primis. Poi è venuto il tempo della pasta al forno. E ancora, il pollo con le patate al forno, le cotolette, la parmigiana…tu sì che sapevi come prendermi per la gola, la nò! E quando volevamo ammirare un bel quadro, bastava aprire la porta della cameretta e contemplare le distese “su tavola” di orecchiette e cecatelli fatti a mano, di scarole e cartellate pronte ad essere condite. Ed è arrivato, benché tardi, anche il tempo della collaborazione per i dolci delle feste. Su cartellate e scarole non ci ho mai messo una gran mano, questo è vero. Ma sulla pizza con la ricotta ho avuto modo di agire in misura di gran lunga maggiore e considerevole. E i risultati sembrano esser stati apprezzati dall’intera famiglia! Avevamo creato una squadra pazzesca, io e te. Almeno per le delizie pasquali, s’intende: la mia carriera in cucina non ha avuto un séguito granché fortunato, poi. Sai bene che su quel fronte ho ancora tanta, ma taaaanta strada da fare!
La tua ultima promessa sono stati i pomodori col riso. Ti avevo raccontato per telefono, quando ero ancora in Grecia, che lì li facevano, ma conditi con la menta e con un aspetto poco convincente. “E senti a me, aspetta che torni ché te li faccio io!” avevi replicato tu, determinata, forse tanto impaziente di rivedermi. E come dirti di no, non aspettavo altro. Non ho assaggiato un solo pomodoro lì a Creta, ho aspettato con ansia di bambina di tornare a casa per gustare i tuoi. Ma non ce l’abbiamo fatta, nò. La clessidra era già stata girata, decisamente troppo in fretta, senza che noi potessimo saperlo, senza che noi potessimo fermarla. Immancabili erano poi i tuoi piatti speciali post-esame, la giusta ricompensa dopo settimane di studio e di sforzi, il premio strameritato per i miei trenta e lode che ti compiacevi di annunciare al mondo. Io e mamma provavamo scherzosamente ad ammonirti, a dirti che non si faceva così, che non era carino sbandierare ai quattro venti ogni mio successo, scolastico o universitario che fosse. Ma non c’era modo di fermarti, nò, sei stata tremenda! Eri tanto, troppo orgogliosa di me. Ero il tuo vanto, la tua fonte inesauribile di fierezza e soddisfazioni. E io sentivo e sento di non meritare tanta lode, per me tutto questo è sempre stato troppo. Eppure tu hai persistito, testarda, fino all’ultimo; non hai mancato mai di portarmi su di un piatto d’argento, così come prima di ogni esame non hai mancato mai di ripetere, fino allo stremo, la “preghiera dello studente” cui tanto eravamo legate. La recitavi con assidua fedeltà, con costanza e precisione rigorose, con l’apprensione di una mamma che aspetta da un momento all’altro l’agognata telefonata di un figlio da cui deve ricevere la più importante delle notizie. Quanto sei stata bella, nonna mia. Quanto sei stata cara, premurosa, straripante d’amore, per me. Un amore irripetibile, che mai avrà eguali, ma che continuerà ad urlare forte nel mio petto, ad invaderlo, e che lo scalderà in un momento inaspettato o quando più ne avrò bisogno.
Se poi ripenso in maniera generica alla mia carriera universitaria, non posso che guardare a te come ad un pilastro, a un tassello imprescindibile per la conclusione di un puzzle, alla chiave di volta di un arco. Tu mio sostegno, tu mia forza costante, tu mia fan numero uno. Il mio primo esame in assoluto, quello di letteratura latina, il “temutissimo” di ogni studente, l’ho preparato quasi per intero a casa tua, tra le tue coccole e le tue cure. Ho vissuto da te per mesi interi. Studiavo avvolta nella tua vestaglia rosa, alla luce un po’ fioca del tuo lume, in quella cucina un po’ troppo stretta, ma così adatta ad accogliere una povera disgraziata come me in fuga dal trambusto della casa paterna. Mi pare di sentire ancora i tuoi occhi addosso, la tua preoccupazione silenziosa per il mio studio stressante, la tua voce che dal soggiorno, ad intervalli più o meno regolari, mi domandava: “È troppo alto il volume della televisione?”.
Il tuo invito a chicchessia ad abbassare il tono della voce, la tua giustificazione puntuale per il tono basso della tua, di voce, perché “Benedetta sta studiando”. Perché Benedetta attendeva ad occupazioni “sacre”, e non doveva essere interrotta, molestata o disturbata da alcuno. La ricordi la mattina di quell’esame, nò? Ero venuta da casa in lacrime, mamma era sul punto di cacciarmi fuori a calci perché la mia ansia smodata l’aveva esasperata. Quella mattina avevo deciso di non farlo, l’esame. Mi ero messa in cucina, e in uno stato di trance ripetevo la commedia, Plauto o Terenzio. Tu mi rivolgevi parole di conforto, mi dicevi di andare a provarlo comunque, o di lasciar stare tutto così, con tranquillità, nel caso in cui non me la fossi sentita. Poi mi sono alzata di scatto, e tra le 8:30 e le 9:00 ho fatto una corsa forsennata verso l’università. Basta, dovevo provarci, “vada come vada”. Qualcosa si era smosso dentro di me, ero stata pervasa da uno scossone che ancor oggi non riesco a spiegare, e fra l’incredulità personale e uno stato strano di incoscienza che mi hanno accompagnato anche dopo, ho dato con successo il mio primo esame (o meglio, la prima parte di esso). È stato l’inizio di una serie di successi, uno concatenato all’altro, cui tu hai assistito e partecipato attivamente con il cuore gonfio d’orgoglio, con gli occhi lucidi e con un immancabile pianto all’arrivo di ogni mia telefonata che volesse comunicarti il responso della prova. E tra il silenzio gioioso e le lacrime di commozione, spesso ti uscivano un “Ma perché ti fai venire tante ansie, figlia mia!” o un “Ti devo dare tante botte!”. Amore mio. Nonna mia bella.
E l’esame di letteratura italiana, nò? Di nuovo in trasferta a casa tua, questa volta d’estate, col caldo di giugno addosso, e con una location nuova, la cameretta, con i caffè che tu mi preparavi per tenermi sveglia la notte. La mia memoria mi dice di una caffettiera messa su appositamente per me alle tre di notte; mi sembra quasi di vedere la tazzina da cui ne ho sorseggiato il caffè. Ricordo le tue improvvisate in camera per chiedermi se fosse tutto a posto, se avessi bisogno di qualcosa. Il tuo sbigottimento di fronte al fatto che io studiassi ininterrottamente per tante ore, il tuo dispiacere nel vedermi stanca e provata, e al tempo stesso la tua opera di motivazione nei miei confronti, il tuo sostegno sprintoso e la tua “tifoseria” sfrenata perché io ce la facessi. Beh, forse senza di te veramente non ce l’avrei mai fatta.
Non ce l’avrei fatta ad esser quello che sono oggi, una Dottoressa in Lettere e Beni Culturali. Nonna, sapresti dirmi il numero preciso delle persone a cui hai raccontato della mia laurea? In questi giorni, chiunque io incontri, mi dice di come tu le/gli abbia decantato le mie lodi, per telefono o di persona. Che hai combinato? Mi hai fatto e continui a farmi morire dal ridere. Ricordo la tua profonda emozione il giorno della mia seduta, il tuo orgoglio di nonna, la tua felicità pura e genuina. Probabilmente ti ho regalato una gioia fra le più belle della tua vita, o almeno questo è quello che mi auguro. Se così fosse, come ne sarei felice ed orgogliosa io! Alla mia festa, poi, sei stata una degli invitati più attivi: mi hai osservato ridere, ballare, cantare e animare la serata con disinvoltura e talento, almeno a detta tua. Ti sei grandemente sorpresa del mio savoir-faire, della mia scioltezza, che penso aver acquisito un po’ relativamente da poco tempo, forse da quando faccio seriamente teatro. E sei stata vigile e sveglia fino all’ultimo, mentre persino a mamma e papà si chiudevano gli occhi per la stanchezza! Forse avresti volentieri continuato a godere della nottata, se non avessimo smontato baracche e baracchelle. A riparlare insieme del giorno della discussione, poi, nelle settimane e mesi a venire, quanti dolci ricordi mi hai lasciato! “Sei stata la più brava” (frase che pare tu abbia detto anche alle mie amiche dopo la seduta, nella formula: “Non perché è mia nipote, ma è stata la più brava”!)”; 3“E ij dicev: ma se è stata la prima a parlare, perché 4n’a chiam’n?”; “Quando poi si sono alzati tutti in piedi… che emozione! I brividi!”. La commissione in piedi per l’attribuzione della lode non te l’aspettavi proprio, nò, è vero? Un colpo al cuore, ah?
Queste e tante altre le frasi che hai continuato a ripetere stupefatta, deliziata, fiera, per giorni, per mesi. Quanta gioia mi ha donato il sentirle pronunciare da te. Poi è venuto il tempo del dolore e della malattia, mia dolce nonna. Mamma sconvolta, lacerata, straziata. Lei mi ha dato la notizia del tuo male a dicembre, mi ha spiegato che non avrebbe potuto farlo prima, non sarei riuscita ad andare avanti col mio lavoro di tesi, non mi sarei più laureata a novembre. Io, dal canto mio, intuivo che qualcosa non andasse e che lei fosse reticente. Ma ho perseguito il mio obiettivo fino alla fine cercando di non darci molto peso, mi sono impegnata affinché riuscissi a tagliare il traguardo nel migliore dei modi. Beh, a dicembre mi è crollato il mondo addosso. Tu la mia infanzia, tu la mia adolescenza, tu il mio presente. Te ne saresti potuta andare da un momento all’altro, portando via con te un pezzo di me stessa, della mia carne, del mio respiro. Ed è così che mi sento anche adesso. Privata di una parte del mio essere, delle mie funzioni vitali. Nonna…troppo presto te ne sei andata. Quanto mi manchi. Quanto vorrei tenerti stretta forte a me la notte, nel mio letto.
Ti devo chiedere scusa per le mie assenze, le mie mancanze, le mie omissioni, prima e dopo l’avvento della malattia. Per tutte le volte che non sono venuta a trovarti quando avrei potuto, per le volte in cui pigrizia e svogliatezza hanno prevalso sull’impulso di mettermi un vestito addosso e venirti a trovare, anche solo per qualche minuto. Per non esserci stata il giovedì e il venerdì prima della tua morte, per non essere passata da casa tua a finire di raccontarti della Grecia, così come ti avevo promesso.
Per essermi lasciata sfuggire dalle mani l’occasione di godere di te, relativamente libera, serena e a casa, per altri due giorni della tua vita, gli ultimi due prima del travaglio definitivo e fatale. Perdonami, nonna. Perdonami se non ci sono stata abbastanza. Perdonami per tutte le volte in cui hai sperato che bussassi da un momento all’altro dietro la tua porta, e io non c’ero. Per tutte le volte in cui avresti voluto vedermi, toccarmi, parlarmi, e io non ero lì da te, con te.
Quanto hai patito, quanto hai sofferto, nella tua vita. Da un’infanzia di guerra e povertà a una maturità non sempre facile, punteggiata di malattie, interventi, combattimenti fisici ed emotivi, preoccupazioni personali e familiari. Per me sei la più forte delle donne ch’io abbia mai conosciuto. Quando mi raccontavi di te bambina, costretta a una vita di miserie e di scarsezza, tuttavia alimentata dall’affetto e dall’unità di una famiglia buona e numerosissima, io restavo esterrefatta, a bocca aperta. Già da piccola ero stracuriosa di ascoltare le tue storie e i tuoi aneddoti passati, appartenenti a un’epoca così lontana nel tempo, eppure vividi, presenti e tangibili grazie al racconto della tua voce saggia e soave, veicolo di un’austerità e una genuinità di pensieri e sentimenti di fronte alla quale non ci si poteva che inchinare.
I tuoi mille spostamenti, le tue mille abitazioni nuove, la tua nuova vita a Ripatranzone, l’atrocità dei bombardamenti, la paura degli americani, quegli omoni alti e neri che giravano su dei carri per portare gente in salvo… tessere preziose di un mosaico speciale, quello della tua storia personale, che però s’intrecciava ed era parte di un mosaico più grande, quello della Storia Universale. E così i tuoi racconti erano finestre che si spalancavano sul passato di tutti, sul passato di un popolo, sul passato di un’Italia in ginocchio e sofferente, sul passato del sangue che scorre nelle nostre vene. Tu mia prima maestra, tu mia prima sorgente di sapere, tu fonte imprescindibile per la mia passione ed inclinazione verso la storia e le discipline che riguardano l’uomo nella sua totalità. Tu esempio splendido di donna, di Essere Umano degno d’esser così chiamato. Grazie per avermi insegnato il decoro, la dignità, la solidità dello spirito, anche dinnanzi alle evenienze più spietate e dolorose della vita.
Di grazie dovrei dirtene a non finire. Mi limiterò a dirtene uno, in chiusura, per l’eredità più grande che tu abbia mai potuto lasciarmi: il tuo Amore immenso, paziente, incondizionato, silenzioso, senza pari. Lo terrò chiuso a chiave nel cuore per l’eternità. Tu, nel frattempo, stammi vicina e non mi lasciare mai, nò. Resta a dormire nella “stanza accanto”, come recita una bellissima poesia, continua a darmi il tuo buongiorno quando mi alzo, la tua buonanotte quando mi metto a letto. A tifare e pregare per me prima di ogni esame, ad esultare piena di gioia per ogni mio successo.
A guidare il mio percorso e i passi che muovo sulla strada. A darmi consigli. A tranquillizzarmi nell’ansia, a fornirmi conforto nello sconforto. A tenere stretta la tua mano nella mia. A stringermi forte al tuo petto quando avrò voglia delle tue coccole. A darmi i baci più zuccherini del mondo. A sorridermi nel modo più dolce ed etereo. Ad abbracciarmi delicatamente e teneramente come tu sola sai fare. Ad amarmi nonostante i miei limiti e le mie povertà, nonostante me stessa, ancora ed ancora, fino alla fine dei miei giorni, per sempre.
Ti amo per l’eternità.
L’amore tuo per sempre, Benni.
Termini dialettali:
1 I Palett! = dita lunghe
2 Nò = Nonna
3 E ji dicev = e io dicevo
4 Perché n’a chiam’n? = perché non la chiamano?