Claudia Gambarotta.
Maturità classica, laurea in economia politica, licenza in scienze sociali e corsi di formazione in varie discipline aziendali. Ha prestato il suo servizio per diversi anni in ambito gestionale e di ricerca presso istituzioni dell’Unione Europea e come consulente d’impresa in diversi studi professionali. Fa volontariato nell’ambito delle relazioni internazionali, culturali e sociali della salute delle persone migranti e rifugiate. Partecipa al Concorso 50&Più per la prima volta. Vive a Roma.
Con il battito del cuore leggermente accelerato, come sempre prima di ogni tappa del suo nuovo cammino professionale, Chiara scende con attenzione i pochi scalini che conducono alla sala conferenze, un locale male illuminato e areato dal tipico soffitto romano basso ad avvolto, posto sotto il livello della carreggiata e sottratto al suo frastuono. Uno spazio di riflessione e scambio ma piuttosto asfittico.
Il seminario inizierà a breve e come lei si aspettava il pubblico seduto in aula è costituito per la maggior parte di donne e uomini al massimo sulla trentina. Le rivolgono sorrisi e saluti di benvenuto alquanto enfatici, che le fanno comprendere di essere stata scambiata per una docente e possibile futura mentore, una deferenza che si trasforma in perplessità e mormorio non appena lei prende invece posto fra i partecipanti all’incontro.
Da quando ha perso il suo lavoro in seguito all’acquisizione ostile dell’azienda di cui era collaboratrice da parte di un grande gruppo che ne ha rimpiazzato il management con il proprio – più giovane e arrogante e inconsapevole che lo stesso destino potrebbe attenderlo in futuro – Chiara, il cinquantesimo compleanno superato che non è molto, ha deciso di dedicarsi all’impegno sociale, iniziando pazientemente a formarsi nuove competenze e a proporsi per collaborazioni brevi, nel tentativo di reintegrare la cosiddetta vita attiva, un’opportunità finora preclusale dal part-time involontario cui sono risultate spesso obbligate le dipendenti, anche nelle redazioni, con pregiudizio per loro e per le nuove aspiranti.
Nella saletta scende il silenzio ed entrano i relatori, in prevalenza quarantenni professionisti dell’inchiesta sociale con affiliazioni politico-culturali ed editoriali dichiarate, guidati dal direttore del seminario, una figura di grande esperienza prossima ai settant’anni, dall’aria severa e un poco sprezzante. Terminata la presentazione, da lei seguita con grande interesse e apprezzamento per l’opera di approfondimento e informazione di cui danno testimonianza i relatori, Chiara avvicina il panel dei docenti per un saluto di cortesia ed è colta in contropiede quando percepisce tensione e sospetto nei propri confronti.
Con il passare dei giorni e il ripetersi degli incontri matura la sensazione che persino nel contesto di questa semplice attività di formazione sussistano i pregiudizi diffusi nel mercato del lavoro, dove la persona cinquantenne, o boomer, una definizione nata con riferimento alle dinamiche demografiche ma cui ormai si attribuisce il senso di una colpevole ridondanza – sembra rappresentare solo un fastidio.
È poco interessante per i professionisti di lunghissima esperienza, perché non costituisce il tipico ascoltatore giovanissimo, inesperto e pronto a gettarsi su incitamento dell’insegnante in ogni tipo di indagine (magari di quelle rimaste come un sassolino nella scarpa del loro mentore), pur di arrivare a ottenere sostegno nei contatti con le redazioni. L’inchiesta poi, ai tempi del loro esordio, era un lavoro quasi solo maschile e nel loro immaginario le donne restano le segretarie da corteggiare per trarne informazioni riservate o le compagnie occasionali delle zone di guerra.
La persona di cinquant’anni viene poi temuta dai quarantenni, perché ha un curriculum con numerose competenze e potrebbe rappresentare una concorrente, quindi meglio non offrirle alcun contatto; è anche più ferrata in deontologia professionale e rischia di seminare fra i giovani il dubbio che ci si approfitti di loro, nei corsi come nelle redazioni.
È infine detestata dai ventenni, chiamati millennials con un termine che ha preso una sfumatura quasi di dominio di questo tempo – perché i partiti politici nello sforzo di segmentare il proprio
elettorato hanno finito con l’aizzare le generazioni l’una contro l’altra, complice anche l’editoria, spesso in mano direttamente o indirettamente a un’industria che preferisce eliminare i cinquantenni, memori ed eredi delle conquiste del lavoro, alimentando una narrazione che li scredita.
È così che “cinquantenne” ricorre nelle narrative pubbliche come un termine dispregiativo, che non ritrae il collaboratore fedele ed esperto pressato dal datore di lavoro a dimettersi, perché ha un contratto che ne sostiene il tenore di vita e lo garantisce, per sostituirlo con un giovane freelance sottopagato e senza niente a pretendere, ma che lo dipinge come chi a quel giovane ruba il posto, mistificando causa ed effetto davanti al risultato che nella generale precarietà le due generazioni devono disputarsi le poche possibilità rimaste, mentre il capitale che permetterebbe a tutti di lavorare, se investito responsabilmente in impresa, fugge nei paradisi fiscali e delocalizza là dove il personale, spesso femminile, è più vessato.
Le agenzie europee preposte alla tutela dei diritti poi, come il Consiglio d’Europa, essendo dominio dei partiti progressisti che puntano all’elettorato giovanile – rifletterà ancora con rammarico Chiara, di profonde convinzioni progressiste ma in senso solidaristico – hanno a lungo preso in considerazione la discriminazione sulla base dell’età solo quando è perpetrata verso i giovani, senza sognarsi di sanzionare il discorso d’odio verso gli ultracinquantenni, per disinteresse o forse perché potrebbe diventare un impedimento a certe campagne elettorali o di politica economica.
In questo clima e con sullo sfondo il forte impoverimento dei professionisti intellettuali, incomprensione e risentimento – lei scopre sempre con dispiacere – vengono poi a manifestarsi anche tra gli stessi cinquantenni.
I rari docenti di questa età sono in affanno: vissuti a lungo in relazioni di lavoro stabili si sono concentrati nel perseguire l’eccellenza tecnica e hanno dedicato meno cura alle affiliazioni politiche, alle militanze confessionali, alla tessitura di cordate di carriera, ritrovandosi isolati nel mondo del lavoro parcellizzato a competere al ribasso sui progetti con i freelance. Da qui un malcelato nervosismo verso i giovani allievi, visti come dei crumiri.
Trascorsi due mesi di lezioni si entra nel vivo del corso e diventa imprescindibile accorciare le distanze per realizzare dei lavori di gruppo, facendo ricorso a una chat per il coordinamento fra i partecipanti.
I giovani allievi accettano a fatica, e senza preoccuparsi di nasconderlo, la presenza di Chiara in aula e persino nel mezzo digitale, con un’aggressività che rasenta il bullismo soprattutto nelle giovani donne (un vero e proprio choc, questo, che lei avverte come la sconfitta del solidarismo femminista). Chiara, infatti, non segue le stesse regole di relazione con i propri “superiori” del corso – docenti e tutor – e osa chiedere spiegazioni a certe richieste e pronunciare alcuni «no, non lo farò»: una libertà malvista da chi ritiene di non avere alternative al compiacere, in un gioco di manipolazione vicendevole per conquistare delle opportunità. Lei ne è rattristata, soprattutto per il messaggio del “tutto è permesso pur di pubblicare” inculcato nelle nuove leve professionali.
Si decide a cercare con i suoi colleghi in erba un diverso rapporto, non disertando la chat come terreno di incontro e di collaborazione con loro.
Il mezzo digitale ha indubbiamente innumerevoli vantaggi: la velocità di contatto, l’immediatezza
dell’aggiornamento, il tono più rilassato e giocoso rispetto alla classica e-mail e la gamma espressiva più ampia, grazie a emoji e gif, che stimola la creatività dei partecipanti e facilita la condivisione.
Non le sfugge che in parallelo è stata creata una chat ufficiosa, da cui è stata esclusa insieme ad altri partecipanti che non piacciono agli allievi dominanti, dove viene messa in ridicolo pesantemente, in
uno sdoppiamento inquietante fra la fiducia che viene a poco a poco costruendosi con i giovani colleghi quando ci si trova faccia a faccia, fugata l’ombra dei rispettivi pregiudizi, e il manifestarsi improvviso e violento di una seconda personalità digitale, latente e oscura, che si scatena cumulando l’effetto della spersonalizzazione del virtuale a quello del branco.
In Chiara si sviluppa l’impressione che la rabbia accumulata inconsciamente nei dubbi rapporti professionali che i giovani sono costretti a stabilire e la contemporanea esaltazione egocentrica e sregolata della propria individualità consentita online si avvitino in una spirale dannosa per loro stessi e per la società e si convince che ripristinare un sano riconoscimento del loro impegno, spesso coraggiosissimo nella ricerca della verità e della giustizia attraverso l’indagine sul campo e la pubblica denuncia, insieme a percorsi di crescita motivanti, che permettano una contemporanea maturazione della personalità e della relazionalità, li condurrebbe a una espressione anche digitale meno adolescenziale, più serena e rispettosa di sé e degli altri.
Esaminando i linguaggi impiegati nella chat ufficiale, lei si rende conto anche di quanto il modo di esprimersi sia differente fra le generazioni: i giovani hanno una comprensione immediata e istintiva, allergica agli “spiegoni” che invece costituiscono tanta parte della comunicazione dei più adulti. Allo stesso tempo, cercano rassicurazioni e modelli, che la società liquida nega loro, esponendoli così alle più varie influenze.
I cinquantenni, la generazione chiamata da Paolo Borsellino a partecipare a una stagione di liberazione dall’illegalità e dalla prepotenza, ma rimasta traumatizzata e soggiogata dall’esplosione che uccise Giovanni Falcone e la sua scorta a Capaci, la cui forza centrifuga aveva spinto fuori dall’Italia molti giovani talenti del tempo spezzandone le speranze di cambiare il mondo, non possono voltarsi dall’altra parte infastiditi e rinunciare nuovamente al loro ruolo e alle proprie responsabilità nello spazio pubblico, anche digitale – si persuade Chiara.
Ancora attivi professionalmente, devono rappresentare per chi esordisce la saggezza, la correttezza, l’umanità. Senza scimmiottare linguaggi giovanili ma anche senza nostalgie, i cinquantenni devono mostrarsi autentici, nel virtuale come nel reale, per parlare ai giovani in modo diretto, senza timore di esprimere una leadership fondata sull’esempio, sul senso civico e di solidarietà, sulla considerazione per il futuro che l’uso scriteriato delle risorse naturali ed economiche mette a rischio, per esigere, tutti insieme, più rispetto.
“Daje, raga, vi mando la mia sintesi ragionata del testo sui limiti dell’Unione Economica e Monetaria dell’UE nella tutela dei Paesi più deboli, così ci facciamo un articolo” – scrive Chiara nella chat, felice che essere stata un’economista serva a sensibilizzare i giovani sul futuro democratico e solidale del progetto europeo.
Una pioggia di emoji sorridenti nelle risposte scioglie la tensione e il suo cuore. Nello specchio della chat non si rifletteranno più le oscure trame dell’aggressività, ma il limpido intreccio dell’amicizia ritrovata fra le generazioni.
Ed escono insieme a rivedere il sole.