Secondo Walter Veltroni, questo decennio non è certo iniziato nel migliore dei modi. E i giovani ne stanno pagando il prezzo più alto. La famiglia, però, può fare molto: deve trasmettere sicurezza e fiducia nel futuro, senza mai sottrarsi alle loro domande
Scrittore, giornalista e regista, l’ex-politico Walter Veltroni, già sindaco di Roma, vice presidente del Consiglio, ministro per i Beni culturali e ambientali, nonché fondatore del PD e segretario nazionale dei Democratici di Sinistra e dello stesso PD, è dal 2014 membro del Consiglio Direttivo di Unicef-Italia, l’organismo delle Nazioni Unite che si occupa dell’assistenza all’infanzia e ai giovani in difficoltà. Inoltre, ha diretto nel 2015 il pregevole docufilm I bambini sanno, dedicato alla percezione “diversa” del reale da parte dei piccoli.
A lui abbiamo posto una serie di domande relative ai temi principali della nostra inchiesta. Le introduciamo con una citazione da un suo recente articolo apparso sul Corriere della Sera, di cui Veltroni è editorialista. «Abbiamo misurato, con colpevole ritardo, gli effetti della pandemia sulla coscienza e lo stato d’animo dei giovani. Abbiamo potuto registrare quanta tristezza, ansia, rabbia, male di vivere, questi due anni di trinciamento delle relazioni sociali, di compressione del naturale bisogno di autonomia dalla famiglia, abbiano comportato nei ragazzi. Ora, quando sembrava che si potesse finalmente riguadagnare una specie di normalità, la guerra – una guerra così vicina e così folle, così carica di conseguenze universali, come una pandemia violenta – riavvolge, specie i più giovani, in un gorgo di paura e di nero».
Qual è, secondo lei, la principale difficoltà nell’essere adolescenti oggi?
La sensazione di cupezza, di angoscia, di perdita di speranza che caratterizza questo tempo. In fondo, siamo passati da una pandemia a una guerra e questo non può che essere un furto di gioventù nei confronti di chi avrebbe tutto il diritto di vivere quel tempo della vita che è invece segnato dalla speranza, dalla fiducia nel futuro, dall’ottimismo, che non è caricato dai problemi. Sì, direi proprio la cupezza di questi Anni ’20, che sono cominciati, come altri Anni ’20, sotto un brutto segno.
Mancano anche modelli educativi, tipo famiglia o scuola, oppure modelli di riferimento reali e virtuali?
Sì, la crisi di questi modelli è già in atto da tempo e viviamo la necessità di adeguamento al tempo in cui le suggestioni che arrivano agli adolescenti sono molteplici, e arrivano da tante fonti che spesso non sono quelle tradizionali. Tuttavia, soprattutto nel corso degli ultimi due anni e mezzo, la famiglia e la scuola sono stati elementi coesivi, rifugi, zone di sicurezza, quindi hanno mostrato tutta la loro utilità.
Cosa pensa dell’isolamento sociale di questi tempi, che non di rado porta gli adolescenti fino a vivere da “hikikomori” (isolato n.d.r.)?
Direi che è un riflesso naturale. Perdere due anni di relazioni, di possibilità, quando si hanno cinquanta o sessant’anni è una cosa. Quando si hanno tra i 15 e 17 anni è tutt’altra cosa: significa comprimere il momento in cui la vita si forma, le relazioni si stabiliscono, si conosce l’amore, si sta con gli altri, si cominciano a vivere le prime esperienze di autonomia, e quindi sicuramente noi vedremo nel tempo gli effetti di questo periodo.
Cosa pensa del rapporto tra adolescenti e violenza, dalle maxi risse al bullismo, dalle violenze sessuali fino alle babygang?
Sono anch’esse il prodotto di questa compressione di energia e di voglia di autonomia che, a un certo punto, ha come deriva questi comportamenti che sono la manifestazione di un malessere, di un disagio, di una crisi molto profonda.
Esiste comunque anche un universo positivo di adolescenti attivi e propositivi, che si impegnano per il futuro. Pensiamo, ad esempio, ai Giovani Alfieri premiati ogni anno dalla Presidenza della Repubblica come parte emersa di un grande iceberg…
Sì, certo. Lo si vede nelle manifestazioni per l’ambiente, per la pace. Lo si vede nella produzione culturale. Lo si vede in molte situazioni, tuttavia è come prendere a spallate un muro. Perché oggi c’è un muro davanti alla condizione degli adolescenti ed è contro quello che o si sbatte o si ha la forza necessaria per buttarlo giù. Naturalmente in più si è, più si ha la forza per abbatterlo.
Cosa pensa del loro rapporto con i videogiochi e i social?
Sicuramente ha avuto un valore positivo durante la pandemia, quando questi strumenti hanno consentito di stabilire un sistema di relazioni sociali importante. Pensi a cosa sarebbe stato rimanere chiusi in casa senza nessuna possibilità di relazione con gli altri, con i propri coetanei. Sarebbe stato veramente devastante, quindi i social network e persino i videogiochi, che hanno costituito un modo per passare il tempo, sono stati molto utili. Poi, invece, sulle loro contraddizioni, sulla semplificazione, la radicalizzazione, sulla banalizzazione si potrebbero fare dei lunghissimi discorsi.
Discorsi che toccano le dipendenze, vecchie come alcol e droghe, e nuove…
Questi fenomeni sono sempre da mettere in relazione a una condizione di crisi. Più c’è disagio e più questi comportamenti tendono a diffondersi. Quindi torniamo al tema: bisogna rimuovere le ragioni di questo disagio.
Sia lei come scrittore sia noi come genitori, come nonni, come possiamo aiutare?
Dando loro fiducia nel futuro, raccontando storie, infondendo sicurezza. In questo momento credo che gli adulti abbiano il grande dovere di fornire sicurezza, senza mai evitare le domande degli adolescenti.
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