Il segreto di una vita felice è viverla a lungo e piena di significato e di valore. È quanto afferma la Fullgevity, la nuova mindset, “mentalità” che dovrebbero assumere singoli e associazioni. Lo afferma Alessia Canfarini, autrice di Fullgevity. La pienezza è la nuova longevità.
Il presidente Carlo Sangalli ha affrontato il concetto in un suo recente editoriale – Il segreto di una vita felice – pubblicato su 50&Più di Giugno 2023: «Se la comunità è il segreto della longevità e della felicità, 50&Più è uno dei migliori strumenti della Fullgevity, ovvero di una vita non solo lunga (longevity) ma anche piena (full) di significato e valore».
Il tema è il cuore del libro Fullgevity. La pienezza è la nuova longevità. L’autrice, Alessia Canfarini, da oltre un quarto di secolo è consulente in ambito di modelli collaborativi, economicamente sostenibili e inclusivi, di progetti di trasformazione culturale e digitale. Oggi guida il Centro di Eccellenza Human Capital di Bip, relativo appunto al capitale umano. A lei abbiamo chiesto di spiegarci meglio questo nuovo concetto di longevità.
Alessia ci racconti il significato della sua parola Fullgevity e come è connessa a una nuova lettura della longevità?
Questo neologismo nasce da una profonda osservazione della realtà e delle sue trasformazioni, di cui le organizzazioni sono una perfetta esemplificazione. Sono partita sostanzialmente da questo aspetto semplice, ma tutt’altro che banale nelle sue conseguenze. Mi sono chiesta: “Se l’aspettativa di vita media si è allungata, specialmente nelle cosiddette Zone Blu del mondo dove sono presenti gli ultra centenari, avere una vita lunga corrisponde sempre ad avere una vita piena (e per piena intendo piena di significato)? E ancora oggi le persone si accontentano di vivere più a lungo o vogliono condurre una vita orientata al senso e ai valori?”. Chiaramente si tratta di un completo cambio di paradigma, da cui le persone partono per definire o ridefinire il proprio percorso personale e professionale e da cui le organizzazioni dovrebbero attingere per impostare una rinnovata strategia di buona governance.
Lo psicologo Vittorino Andreoli dice che utilizzare una terminologia come fullgevo, ma anche della terza età, senile, anziano, sia un mascherare il termine vero, cioè vecchio. Sia segno di una cultura che rifiuta la vecchiaia come se fosse una zavorra sociale, senza comprenderne il vero significato esistenziale. Cosa ne pensa?
Mi sento di concordare con Andreoli quando afferma che spesso non comprendiamo il senso e la profondità delle fasi esistenziali che siamo chiamati/e ad attraversare. Questo in realtà ha molto a che fare con ciò che io ritengo essere un mindset e un comportamento fullgevo, utili – e qui esprimo invece il mio disaccordo con la prima parte della citazione – a superare i sentimenti di disprezzo e i pregiudizi che si porta dietro una parola come “vecchio”. Non a caso nelle aziende si parla sempre di più del problema dell’ageismo, ovvero della discriminazione basata sull’età. Questo per dire che a volte i neologismi possono aiutare a superare ostacoli culturali resistenti, poiché permettono di rileggere il presente e il passato da una nuova prospettiva e portare a scelte che facciano davvero la differenza nel segno della sostenibilità e dell’equità.
In che senso essere fullgevi può aiutarci a intraprendere una vita più piena, allargata di senso, concentrazione e significato?
Fullgevity è una filosofia, una mentalità, un metodo, uno sguardo nuovo sulla propria vita da concepire non più in senso lineare, ma circolare e quindi più a misura di essere umano. Vivere una vita piena significa essere disposti a fermarsi e a ricalcolare il percorso alla luce delle priorità, del proprio benessere, di ciò che ci rende prima noi stessi e poi ci spinge ad agire. La Fullgevity concepisce le esperienze, siano esse successi o fallimenti, come tappe di un percorso di apprendimento e crescita, che possiamo continuamente riprogettare, rivedere, ridefinire, ridisegnare. Fullgevity è anche impatto collettivo, perché il nostro benessere è sempre connesso a quello degli altri, alla cura degli spazi e delle persone che ci circondano. È appunto pienezza totale, individuale e comunitaria.
Come si rapporta la Fullgevity con i passati ruoli dell’anziano (nonno, saggio, risparmiatore, consigliere…)?
Per me il concetto di Fullgevity ha molto a che fare con la saggezza di cui le persone anziane sono custodi. Non è però un metodo che promuove la pienezza al di là della realtà, ma è una guida saggia che accompagna le persone e le organizzazioni ad attraversare le trasformazioni rapide e repentine dell’epoca contemporanea, a capire come e dove posizionarsi rispetto a essere, senza perdere, anzi trovando e ritrovando, il proprio purpose (“scopo”) e benessere.
La sua idea coinvolge non solo la persona, con ciò che la rende felice e la motiva, ma anche l’organizzazione sociale, che dovrebbe attivarsi a sostenere una logica finalizzata all’autorealizzazione degli individui…
Diciamo che la Fullgevity delle persone intese come singoli individui deve andare di pari passo a quella delle organizzazioni. Solo così si può conciliare ciò che per natura è mutevole e circolare (l’essere umano) con ciò che è concepito in modo più lineare e meccanicistico (il business). Nel caso specifico delle organizzazioni, costruire e ricostruire una strategia fullgeva significa mettere al centro lo scopo e lo human capital, per affrontare quelli che nel libro ho chiamato macro-trend, come: la “grande rassegnazione” e quindi tutto il problema della retention ma anche dell’attraction (in ottica di impatto circolare dei fenomeni); il tema dell’intergenerazionalità professionale e del talento perenne e senza età; della caring leadership, dei community space, del lavoro da remoto e dell’integrazione tra vita e lavoro (work life integration).
Quanto l’associazionismo e le sue attività permettono a un over di essere fullgevo?
Molto, se si tratta di una scelta basata sul criterio dell’autorealizzazione e del benessere che – come ho detto – ha un impatto non solo individuale ma anche sistemico.
Quanto è prospettico il life design e quanto è realizzabile da chi si sta avvicinando alle ultime fasi della vita?
Se parliamo di mirare alla qualità e alla pienezza della vita, allora dico che per il life design c’è sempre tempo. Nel libro conio il metodo del “Life Design Manifesto”, per condurre le persone alla pienezza della propria vita personale e professionale. Con tale metodo la persona progetta il proprio percorso sulla base della sperimentazione e del ricalcolo, vedendo cosa funziona e cosa no, dandosi quindi la possibilità di cambiare in itinere. Ciò significa che c’è un agire nel qui e ora, rapportato alla visione di lungo temine che nelle ultime fasi di una vita fullgeva coincidono quasi totalmente.
Lei individua quattro fasi, “ri-progettare, ri-connettere, ri-pensare e ri-leggere”, per arrivare alla Fullgevity: ce le spieghi…
Per comprendere queste quattro fasi è importante partire dalla consapevolezza che si tratta di un percorso circolare e che quindi può essere sempre sottoposto a riesame. Il concetto di riprogettare è il punto di partenza. Qui, insieme a Sabrina Bresciani (ricercatrice senior presso il dipartimento di Design del Politecnico di Milano), abbiamo cercato di spiegare come questo metodo possa essere applicato al percorso personale e professionale di ciascuno, in modo trasversale e intergenerazionale.
Riconnettere ha a che fare con la collaborazione e contaminazione, ma anche con l’ascolto profondo di se stessi e del contesto in cui siamo, intercettando e anticipando i cambiamenti. Qui mi ha aiutato molto Luciano Traquandi (condirettore del percorso Spiritualità e Management presso il Politecnico di Milano) con cui ho parlato di una nuova leadership basata più sulla cura, sulla visione, sulla fiducia e sulla relazione con i collaboratori. Una leadership detta spirituale.
Ripensare è un concetto che ho dedicato agli spazi. Dovremmo uscire dalla logica della funzione verticale di un luogo, arrivando a concepirne invece le potenzialità di integrazione fra bisogni personali e territoriali. Su questo ho avuto una conversazione illuminante con Elena Granata (docente di Urbanistica presso il POLIMI).
Ultima tappa del libro è stato il rileggere, inteso come capacità di inserire la meraviglia nei progetti personali e sociali in modo innovativo e co-partecipativo. Concetto questo che ho articolato con il supporto di Matteo Villa, co-fondatore del progetto di innovazione sociale Wonder.
A quali difficoltà è lasciato chi non riesce a diventare “fullgevo”?
Do una risposta che vale sia per le persone che per le organizzazioni. La conseguenza che vedo è quella di subire i cambiamenti e, in casi più radicali, di soccombere a questi.
Come si interconnette la Fullgevity con la tecnologia e l’AI?
La Fullgevity permette di considerare la tecnologia e l’innovazione digitale come abilitatori di sistemi che mettono al centro l’individuo e il suo talento, svincolandolo da tutto ciò che è meccanico, ripetitivo e poco qualificante. Questo processo avviene, da un lato, con un aggiornamento delle competenze e quindi con programmi di learning costanti e avanzati e, dall’altro, con un nuovo modello di selezione del personale.
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