Antonino Frattagli.
Ha coltivato la passione dello scrivere fin dall’infanzia. Al Concorso 50&Più nel 2009 ha ricevuto la Menzione speciale della giuria sia per la prosa che per la poesia, nel 2010 ha vinto la Farfalla d’Oro per la prosa, nel 2011 è risultato il più votato dai lettori della rivista 50&Più vincendo la Superfarfalla e nel 2019 ha vinto la Farfalla d’oro per la poesia. Vive a Valderice (Tp).
Questa è la storia di Giò. Dove Giò non è il diminutivo di Giovanni, ma di Giorgio. È una storia vera. Vera … in effetti è vera in una realtà vissuta in parte nell’immaginazione, nel cuore, nell’anima di Giò.
Giò, oggi, è un professore di lettere ormai in pensione da poco meno di quindici anni. Ma non è vecchio. Solo che anni fa si andava in pensione molto prima. Allora, la speranza di vita, era molto più ridotta. Giò era un ragazzino esile, gli si potevano contare le costole una ad una, più castano che biondo, di carnagione chiara, di madre piemontese, ai confini con la Val d’Aosta, ma viveva a Trapani, in Sicilia, dove era approdato alla fine dell’Ottocento il suo bisnonno paterno, Antonio, romagnolo in servizio nella guardia di finanza. O qualcosa del genere.
Mentre scrivo per raccontare la sua storia, sono seduto in guardino con due dei miei gatti in braccio allertati da un micione anziano che passeggia miagolando sulle tegole di una casetta che accarezza il giardino, con una finestrella piccola piccola. A dire il vero non è una casetta. Solo che qui a San Marco il terreno è scosceso e io mi trovo nella parte di sopra. Dalla parte di sotto scende ben più alta. Alcune rose offrono allo sguardo i primi boccioli dai colori appena accennati.
Ma torniamo alla nostra storia. Giò, frequentò le elementari alla scuola Umberto. Esiste ancora oggi, seppure modificata, anzi, ricostruita ex novo. Naturalmente, lui che parlava italiano era tra i più bravi della classe. Gli altri bambini, era l’inizio degli anni cinquanta del secolo scorso, a casa parlavano solo il siciliano. Lui, con la madre piemontese, parlava solo italiano. Sua madre la chiamavano “Uccia parla taliàno”.
Pensare che oggi Giò insegna siciliano scritto. Si, perché il siciliano lo parlano quasi tutti i siciliani ma, altrettanto quasi tutti, non lo sanno scrivere. A volte, su Facebook, qualcuno si cimenta in frasi o peggio poesie in siciliano da far accapponare la pelle. Capisco che è una lingua scritta non morta ma inusuale, ma leggere dieci errori in cinque parole fa rabbrividire. Eppure è così. Non vi dico quando qualcuno addirittura osa mettere, in siciliano, le insegne in un bar piuttosto che in un ristorante. Mamma mia che dramma. Giò si infastidisce parecchio e si chiede perché non si informano con chi può consigliarli, prima di fare mettere le insegne.
Di famiglia benestante, anche se non propriamente agiata, fu iscritto alle medie all’istituto salesiano, scuola privata, dove l’insegnamento era ben diverso da quello della scuola statale. Il latino, in particolare, era il piatto forte e Giò si appassionò tantissimo tirando fuori il suo trasporto per la scrittura, la poesia, la letteratura.
In seconda media, come tutti i ragazzini, Giò ebbe la prima cotta. Si innamorò perdutamente di una ragazza bionda, con la coda di cavallo, che frequentava le medie di via Mazzini. La sognava e cantava a se stesso: “Carina, diventi tutti i giorni piú carina….”, famosa canzone dell’epoca del mitico Fred Buscaglione. Non aveva il coraggio di cantarla a lei! Figurarsi che un giorno, Rosalba, così si chiamava, che passeggiava con una amica sul marciapiede opposto della strada, la via Vespri, proprio all’altezza del cinema omonimo, per provocarlo, la attraversò proprio per strusciare la sua gonna ampia a pieghe, a strisce orizzontali banche e celesti, su di lui, che chiacchierava con un compagno di scuola. Giò rimase impietrito. L’attimo passò. Lui rimase a cantare “carina” a se stesso. Un amore solo nel suo cuore. Giò era troppo timido. Una timidezza più forte dell’amore.
Terminata la scuola media, sempre col massimo dei voti, i genitori lo iscrissero al Liceo Classico Ximenes e qui poté dare sfogo al suo amore per il latino, il greco, forte anche di professori veramente valenti che lo formarono e indirizzarono sulla giusta via.
A quel punto la strada divenne un’autostrada, Giò si iscrisse a lettere a Palermo e si laureò nei tempi dovuti con 110 e lode. Un percorso senza scossoni dalle elementari alla laurea. Era già tutto previsto, canterebbe oggi Riccardo Cocciante. Era già tutto previsto.
Giò, fece il militare come ufficiale in aviazione, sottotenente, a Ghedi, un paesino in provincia di Brescia dove era, e credo sia ancora, una base della NATO. Erano gli anni delle guerra fredda tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, capirete l’importanza di quella base in quel periodo e di quali armamenti era dotata. Giò conobbe e si innamorò di Ana Maria, una ragazza mora ma carina. Non si chiamava Marina, come la protagonista della canzone di Rocco Granata, il suo nome, era Ana Maria con una sola enne. Non è un errore o un refuso, è che la ragazza era brasiliana, figlia di un alto ufficiale NATO in servizio, all’aeroporto di Ghedi.
Quella di Giò ed Ana Maria fu una bellissima storia d’amore. Quando Giò finì il servizio militare non volle proseguire nella carriera , lui era portato per la letteratura, non per le bombe o la guerra, ma rimase a Brescia dove ebbe una cattedra di italiano alla scuola media. Giò e Ana Maria si sposarono, ma lei dopo pochi anni si ammalò e purtroppo salì in cielo senza aver potuto nemmeno dare a Giò il frutto del loro amore.
Grande fu il dolore di Giò, immenso direi, e lui si chiuse nell’insegnamento, nella letteratura, scrivendo racconti e poesie tra i sogni irrealizzati e la malinconia di una vita avara.
Dopo qualche anno, Giò ottenne il trasferimento a Trapani dove insegnò in quel liceo classico che lo aveva visto giovane e valente allievo. La vita sembrava ormai seguire un tran tran quotidiano uniforme e monotono. Giò non aveva cercato altri amori, anzi, se presagiva una eventualità del genere, la rifuggiva allontanandosi per rifugiarsi in quell’amore grande e perduto.
Ma la vita riserva sorprese impreviste, anzi, direi imprevedibili. Un giorno, mentre organizzava con altri colleghi e il Sindaco un evento culturale, conobbe Lei, i suoi occhi verdi, i suoi capelli a caschetto rossi, il suo sorriso, la sua parlantina, e dentro di lui, nel suo cuore inaridito, esplose nuovamente l’amore. Lui era timoroso, ancora una volta avrebbe voluto sfuggire, voleva continuare a rifugiarsi nella sua solitudine, ma quegli occhi, quel suo sorriso, quando lo salutava: buongiorno professore, lo attiravano come una grossa calamita attira un pezzetto di ferro.
Giò e Patty oggi sono sposati felicemente, un amore che si potrebbe definire senile se non fosse che è invece esplosivo, vivo, un amore pieno di amicizie, di attività, di gioia per loro e per chi loro vive accanto. Tutti per nutrirsi di arte, di cultura, di teatro, da protagonisti, da scrittori e da attori, da poeti e da pittori.
Vivono in una casa di fine settecento, in un borgo antico, il sabato del villaggio, lo chiama lui, con le donzellette che passano per strada, i trattori che fanno rientro la sera dopo aver lavorato la terra, un uomo a cavallo che torna da una passeggiata, il macellaio all’angolo della piazza e la chiesa con i rintocchi della campana che segna le ore, gli avvenimenti lieti e tristi e il tripudio del mezzogiorno, i loro tre meravigliosi gatti, Giuseppina che governa la grande casa, il profumo dei fiori nel giardino e della legna nel camino.
Questa è la storia di Giò, la storia di un uomo che ha dato all’amore, alla bellezza, alla cultura la sua vita, il suo impegno, la sua gioia.
È una storia che poco importa quanto ne è stata vissuta nel corpo, piuttosto che nella mente, o nel cuore.