Francesco Di Leva vince il David di Donatello per aver interpretato don Luigi Rega nel film Nostalgia
È un boss spietato, con le sue regole, quando interpreta don Antonio Barracano nel film Il sindaco del rione Sanità. Vive protetto da delinquenti, si fa giustizia da solo e l’unica legge che conosce è quella criminale. È anche don Luigi Rega, il prete che combatte la camorra dal sacrato di una chiesa nel film Nostalgia, tra i vicoli del Centro storico napoletano deturpati dalla droga e dal racket, che costruisce alternative per i giovani destinati a un futuro spesso scontato. Il protagonista è Francesco Di Leva, attore di cinema e di teatro che lo scorso maggio ha ritirato il suo primo David di Donatello come migliore attore non protagonista interpretando don Luigi, al fianco di Pierfrancesco Favino. Insieme all’attore romano, Di Leva ha recitato anche nel film ‘L’ultima notte di Amore’. Oltre quindici anni fa, Di Leva – napoletano e tifosissimo del Napoli – ha avviato una piccola rivoluzione gentile a San Giovanni a Teduccio, il suo quartiere, nella zona orientale del capoluogo campano, noto alle cronache per essere stato roccaforte della criminalità organizzata. Nella palestra di una scuola abbandonata ha aperto un teatro, Nest – Napoli Est Teatro. Con una platea di 98 posti, il Nest – anche compagnia teatrale – ospita spettacoli, mostre, eventi culturali e musicali. A calcare il palcoscenico del teatro grandi nomi del panorama artistico. Ma il miracolo più bello, ogni giorno, il Nest lo compie raggiungendo decine di giovani che scoprono l’arte e si scoprono talenti.
In questi anni ha interpretato esponenti di spicco della criminalità organizzata e uomini impegnati nella lotta alla camorra. Come costruisce i suoi personaggi?
Li costruisco guardando, soprattutto, la realtà. Mi piace non vedere l’uomo, che sia il criminale o il prete, ma quello che quei personaggi sono stati. E mi piace guardare il ‘bambino’ che era in loro perché credo che in ogni essere umano ci sia una nota positiva da cogliere. Se da un lato c’è l’attore che studia i personaggi, dall’altro c’è la persona, Francesco, che vive e lavora in un quartiere devastato dalla criminalità, che i criminali li condanna. Certo, combattere la criminalità è un compito che spetta allo Stato ma anche la cultura ha il proprio ruolo, quello di far innamorare i ragazzi di un’alternativa.
Cinema e teatro. Quale di queste forme di arte sente più sua?
Si tratta di due forme d’arte completamente diverse che mi accompagnano da tempo. Ho iniziato la mia carriera con il teatro e il suo rigore, la sua poetica, il suo ritmo e le sue sensazioni. Anche il cinema lascia le stesse emozioni ma lo fa con un meccanismo diverso. In una fase della mia vita ho amato il cinema, in un’altra ho amato il teatro. Faccio teatro perché credo che sia la vera forma di resistenza nell’arte. No, non so dire quale preferisco. Con il cinema sai che stai mettendo sulla pellicola qualcosa che resterà per sempre, con il teatro, invece, compi un viaggio che ogni sera crea qualcosa di magico e che ogni sera poi svanisce. Con il cinema devi provare a immedesimarti nella percezione del pubblico, al teatro non puoi.
A maggio ha vinto il suo primo David di Donatello. A chi lo ha dedicato?
Ho dedicato questo premio a mia moglie Carmela, per la donna che è e per tutto quello che è stato e continua ad essere per me ogni giorno. Lei mi rende un uomo semplice e onesto.
Possiamo dire che Mario Martone è il suo padrino artistico? Che rapporto vi lega?
È colui che accompagna la mia carriera da 25 anni e lo fa come un padre sa fare con un bambino. Mi ha accompagnato anche alla cerimonia di premiazione a maggio. Sì, è il mio padrino artistico.
Anche lei a sua volta è papà e padrino artistico. Suo figlio Mario – che abbiamo visto nella fiction RAI Resta con me – ha intrapreso la stessa carriera di attore. Le chiede consigli?
Lui ed io ci confrontiamo spesso sul nostro lavoro, è un mestiere che si fa per tutta la vita. Gli dico che ogni giorno deve costruire qualcosa che lo porterà a vivere una grande carriera e per grande carriera intendo scelte importanti, circondarsi di persone che possano arricchirlo da un punto di vista umano. Sì, perché quando si decide di fare uno spettacolo, si decide al tempo stesso di stare intorno a quel progetto due o tre anni, gli stiamo dedicando un pezzo della nostra vita e la scelta deve essere quella giusta, bisogna decidere bene con chi intraprendere il viaggio. Non so quali sono i progetti che devo fare ma sicuramente so quali sono quelli che non voglio fare.
Veniamo al Nest. Come nasce il progetto di ‘Napoli Est Teatro’ nella palestra abbandonata di una scuola, nel quartiere San Giovanni a Teduccio?
Sarebbe bello dire che volevamo realizzare un teatro per tutti. In realtà, volevamo prima di tutto realizzare un teatro per noi, un posto in cui esserci e creare arte. Ogni atto di grande generosità nasce da un atto egoistico. Poi questa, che era una nostra necessità, è diventata una necessità collettiva e allora abbiamo iniziato a condividere la bellezza, il teatro. Lo abbiamo fatto anche promuovendo corsi di recitazione gratuiti per i ragazzi fino ai 18 anni di età. A me piace definire il Nest un aggregatore umano dove si sta costruendo un piccolissimo esercito del bene, in cui le persone si incontrano e si possono anche innamorare del teatro, frequentato da tanti artisti. Abbiamo messo in scena venti spettacoli negli ultimi mesi e tutti hanno registrato il sold out. È stato meraviglioso perché ogni forma d’arte può creare una sensibilità diversa in un viaggio personale e unire, nello stesso istante, la concretezza alla meraviglia.
Il progetto può diventare un modello, una buona pratica da replicare. Secondo lei, esistono periferie ‘impossibili’?
Mi dà l’assist per citare Muhammad Alì, gli ho dedicato anche uno spettacolo. Lui diceva che l’impossibile non esiste. E io dico che le periferie impossibili non esistono: il Nest ne è la prova perché ce ne sono tante di realtà come la nostra. Conosco molta gente che non fa teatro ma fa comunque resistenza in questi luoghi. Il Nest è un modello replicabile, certamente, ma già ne esistono altri in tante città d’Italia, in tanti ‘sud’ del mondo. Con noi lavorano decine di ragazzi per creare una comunità artistica, e lavorano tutti i giorni affinché la cultura possa essere alla portata di tutti. Già questo vuol dire fare resistenza.
Recentemente ha detto che non lascerà mai San Giovanni a Teduccio. Cosa vi tiene legati così tanto?
A San Giovanni a Teduccio mi lega la mia famiglia, i miei amici, le persone a cui voglio bene. Napoli è una terra magica, esoterica. C’è una popolazione di milioni di abitanti che, nonostante i tanti problemi, resta e non si capisce perché. È una città che mi restituisce tanto. San Giovanni è sempre stato un po’ isolato in questi anni ma adesso vive una stagione di rinascita.
Lei è parte di questo cambiamento, sicuramente.
Ci sono tanti motivi che mi spingono a restare qui. Voglio, molto semplicemente, vedere i miei figli andare al cinema nel mio quartiere, che sia un posto sereno, tranquillo. Quando tocchi il fondo puoi solo rinascere e San Giovanni a Teduccio è stato devastato dalla criminalità negli Anni ’80. Spero che i turisti tornino sempre più numerosi tra le strade, vadano al mare e che il quartiere viva.
Dopo lo scudetto del Napoli e il David di Donatello, qual è il desiderio che resta ancora da avverare? Magari entro l’anno?
Desidero tantissimo riaprire il cinema nel mio quartiere, insieme al mio gruppo. È chiuso da 38 anni, sarebbe una conquista per tutti, una vittoria collettiva, perché tanti risultati personali diventano poi anche collettivi. Come questa statuetta, perché il mio David è un David di quartiere, rispecchia una parte del popolo, racconta la mia storia. Sì, il mio prossimo desiderio è questo.
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