La creatività si alimenta espandendo i propri interessi, così come la scrittura, che per essere convincente ha bisogno di nutrirsi di altre esperienze. Parola di Francesco Carofiglio, diventato scrittore… “per caso”.
Ha lavorato per molti anni come attore e autore teatrale, è architetto, regista e illustratore, scrive soggetti e sceneggiature per il cinema e la televisione, ma Francesco Carofiglio è soprattutto un romanziere. Il suo esito più celebre è L’estate del cane nero (quattro edizioni, a partire dal 2008) e, altrettanto significativi, La casa nel bosco del 2014, Una specie di felicità del 2017 e L’estate dell’incanto del 2019. Il suo ultimo romanzo è Le nostre vite.
Lei è architetto, fra l’altro si è occupato del recupero della città vecchia di Bari; attore, ha lavorato anche con Giorgio Albertazzi; illustratore e artista di fama, e scrittore con vari romanzi all’attivo. Di questi, Francesco Carofiglio qual è?
È una domanda che mi porto dietro quasi dall’infanzia, alla quale però non ho una risposta. Posso dire che, qualsiasi tra queste discipline io percorra, racconto delle storie. Si possono narrare storie scrivendo, dipingendo, mettendo in scena uno spettacolo, e anche progettando uno spazio. Le architetture sono contenitori di storie che il progettista consegna a chi quelle storie continuerà a raccontarle attraverso l’uso degli spazi.
Ci sono delle affinità tra le diverse attività che svolge? Una supporta l’altra, come per gli atleti, cui viene spesso suggerito di impegnarsi in discipline differenti dalla loro per qualche tempo perché permette di migliorare le loro performance in quella in cui sono specialisti?
Questo è molto vero. Anche l’analogia con lo sport mi pare calzante. Gli sportivi per migliorarsi devono praticare anche altre discipline, che completano non solo l’ossatura, la muscolatura, ma anche la visione. Accade anche per quanto riguarda la scrittura. Si diventa scrittori migliori se si guarda il mondo con un occhio differente. Quindi l’occhio dell’artista, del progettista, anche dell’attore, analizzano le cose con sguardi differenti, che poi alla fine rientrano nell’unico calderone in cui si cuoce la materia narrativa. E vale anche per quando svolgo altre discipline. Ad esempio, quando progetto uno spazio mi nutro di quello che sono riuscito ad acquisire scrivendo. O leggendo. Non dimentichiamo che, per una buona scrittura o per svolgere tutte le attività legate alla relazione, bisogna essere capaci di essere curiosi del mondo. E una delle migliori possibilità per esserlo è leggere. Leggere moltissimo.
Al protagonista de Le nostre vite un romanzo di Truman Capote instilla il desiderio di scrivere. Cosa o chi ha indotto lei a prendere in mano la penna?
Non volevo fare lo scrittore. Non ci pensavo. Per ultimo ho iniziato a scrivere. Ho iniziato a disegnare a un anno e non ho mai smesso. Ho iniziato a recitare a 16 anni e l’ho fatto professionalmente per almeno tre lustri; nel frattempo studiavo, mi laureavo, iniziavo altre esperienze. La scrittura è arrivata attorno ai trent’anni, tardi rispetto a chi coltiva questa passione, questa ambizione sin da bambino. Ed è arrivata in maniera del tutto incidentale. Nella mia famiglia c’era una scrittrice, che io ritenevo straordinaria, e lo era. Rimangono i suoi libri a testimoniarlo. Enza Buono, mia madre, fu una scrittrice raffinatissima. Così sia io che mio fratello Gianrico abbiamo intrapreso il percorso verso la scrittura venendo da esperienze profondamente diverse. Il segreto sta un po’ lì: l’esserci arrivati avendo già maturato esperienze molto lontane, che hanno concorso a farci avere una visione differente, anche nella scrittura.
Quali sono stati i suoi riferimenti letterari? Qualcuno afferma che sono gli scrittori che non ci piacciono quelli che più ci influenzano…
La mia formazione è policentrica. Da ragazzino leggevo moltissimo teatro. Questo ha contribuito alla mia particolare attenzione al dialogo nel processo narrativo. Alcuni dei miei romanzi sono molto dialogati e si ha un po’ la percezione di una rappresentazione teatrale o filmica. Però è vero che a volte, quando ci imbattiamo – magari con grandi aspettative – in un romanzo che non ci piace, forse sviluppiamo un senso critico e un’attenzione che ci rendono più capaci di essere critici nei confronti della nostra stessa scrittura. È fondamentale essere capaci di analizzare quello che si è fatto anche in maniera spietata. Non bisogna innamorarsi troppo della storia che si è inventata o anche di un singolo passaggio, perché magari alla fine della narrazione quel passaggio risulterà da eliminare per migliorare il processo narrativo. Bisogna essere capaci di agire nei confronti della propria scrittura con cattiveria, una sana cattiveria.
Le nostre vite è sostanzialmente una storia d’amore. Difficile, articolata, complessa, per certi versi anche debitrice con il destino. C’è ancora spazio oggi, con tutto quello che succede attorno a noi, per le storie d’amore? Non si tratta di vicende minime a fronte di guerre, pandemie, morte del pianeta?
Se l’occhio della telecamera è un occhio che guarda il mondo, siamo tutti formiche. Però siamo formiche vive, che si muovono. Magari si uniscono per seguire un percorso, oppure siamo formiche solitarie e anche formiche che si innamorano. In un periodo così complesso come quello che stiamo attraversando, in cui siamo passati da un periodo così doloroso, con tanti morti, come la pandemia, per poi essere colpiti da un evento quasi incomprensibile come la guerra, gli strumenti per stare nel mondo senza venirne travolti sono quelli che rinsaldano i rapporti di prossimità, le relazioni con il proprio vicino o vicina. Quindi magari anche innamorarsi. Paradossalmente i periodi più terribili sono quelli in cui ci si innamora veramente perché si arriva alla ricerca dell’essenza. I grandi amori nati durante la guerra, quelli dei nostri genitori o dei nostri nonni, quando sembrava non ci fosse una speranza del domani. Forse la formula magica è cominciare a pensare realmente che esiste l’oggi piuttosto che il domani e viverlo completamente, integralmente, appassionatamente.
Noi “sottoponiamo i ricordi, veri o presunti, a un processo di ricostruzione culturale, colmiamo le lacune, siamo noi i creatori del nostro copione”, come dice Barbara, la psicologa del suo protagonista. Il rapporto che abbiamo con i ricordi è qualcosa di fondamentale nel nostro vivere quotidiano. Come pensa dovremmo impostarlo?
Le rispondo in maniera un po’ provocatoria: è bello anche inventarseli i ricordi. Prima di me lo diceva Italo Calvino: “Non è importante che quello che ricordiamo sia realmente accaduto, l’importante è ricordalo”. In questo sta la matrice attiva del nostro cervello, nella capacità di inventare. Che in tutti è presente, indipendentemente dal fatto che facciamo gli scrittori, gli architetti, i giornalisti, gli idraulici, persino i politici. Il rapporto con il ricordo a volte è sicuramente di tenerezza, quando si pensa all’infanzia; a volte è per qualcosa che ha segnato la nostra esistenza, che ha procurato una ferita di cui portiamo traccia. Ragionare sulle nostre cicatrici è qualcosa di positivo. Accostarci con interesse a chi siamo stati, interrogarci su questo, è un modo per fare breccia in una barriera temporale. È la possibilità di riposizionarci di fronte a quel ragazzo che eravamo quando avevamo, ad esempio, 15 anni e chiedergli qualcosa. È un modo per conoscerci oggi, a distanza di tanto tempo, in maniera differente. È anche un modo, non dico per non invecchiare, ma per non considerare il trascorrere degli anni una sconfitta, bensì un’acquisizione di conoscenze. Anche attraverso il ricordo.
RITORNO AL PASSATO
«Le nostre vite è fondamentalmente la storia di Stefano Sartor, un quasi 50enne che insegna alla Sorbona di Parigi e che ha pubblicato un saggio di inatteso successo con al centro un evento che ha segnato la sua vita. A 19 anni gli è capitato un terribile incidente domestico che gli ha fatto perdere tutto, la famiglia, la casa e anche il passato perché, da quando si è risvegliato dal coma, non ricorda nulla del precedente vissuto. Questo incidente si è riflesso sul formidabile percorso che ha seguito per ricostruire la sua vita. Accanto ci sono altre storie che si muovono parallele in forma diacronica, su altri registri temporali e di locazione. C’è quella di una ragazzina che negli Anni ’70 sta per vivere la notte più attesa dell’adolescenza, quella in cui ci si innamora. Poi c’è Anna, una fotografa con cui nel presente Stefano incrocia il suo destino. Poi altre ancora, tutte vicende che corrono parallele come affluenti di un fiume in cui poi confluiscono per un unico percorso narrativo. Però i fiumi spesso si ritrovano a dover fare i conti con le rapide, le cascate, il salto nel vuoto, come avviene durante questa storia».
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