Fotografare è un processo introspettivo che spinge a porsi delle domande su cosa vogliamo raccontare per avvicinarci a chi realmente siamo.
«Ogni racconto fotografico inizia da una curiosità e da una domanda. Quindi, ci porta a guardare oltre». Sono le parole di Stephanie Gengotti (nella foto di apertura), pluripremiata fotografa italo-francese. Lei, laureata come interprete in inglese e francese, si è diplomata in Fotogiornalismo alla Scuola Romana di Fotografia. Oggi lavora per testate del calibro del New York Times, Stern, Der Spiegel, Le Monde, Internazionale e National Geographic. Siamo andati a trovarla a Roma, dove vive, per parlare del suo lavoro e del ciclo di lezioni online di fotografia che terrà, a cominciare dal 28 gennaio dalle ore 16 alle ore 18, all’interno dei Webinar di Spazio50.
In cosa consiste il corso che terrai su Zoom?
Si rivolgerà tanto a fotoamatori quanto a fotografi più esperti. Dopo una piccola parte tecnica introduttiva – dove si imparerà a usare la macchina fotografica in manuale – passeremo subito alla pratica. Avrò un costante contatto diretto con gli iscritti. Li aiuterò, tra l’altro, a scoprire la loro inclinazione: la street photography, il ritratto, la fotografia intimistica, quella rivolta alla famiglia, il documentario, il reportage, la fotografia di viaggio. E insieme porteremo avanti un progetto.
Quante lezioni saranno?
Dieci lezioni a cadenza settimanale, di due ore ciascuna. Durante ogni lezione mostrerò autori e, più in generale, il mondo della fotografia professionale. Faremo un viaggio tra le agenzie fotografiche di documentario. Si tratterà di un corso molto legato all’aspetto psicologico dei partecipanti.
Perché iniziare a fotografare?
È un percorso che io definirei terapeutico: un lavoro di contatto e intimità con se stessi. Da un lato avvicina agli altri, ma dall’altro estranea perché – comunque – il processo creativo è solitario. Dà accesso a mondi che, forse, sarebbero rimasti inesplorati.
In cosa consiste la tua ricerca fotografica?
La mia ricerca fotografica parte dallo storytelling, lavoro su progetti a lungo termine raccontando storie attraverso il ritratto. Di certo, il mio lavoro è legato alla fotografia documentaristica tant’è che, quando non lavoro su commissione per un giornale, mi piace cercare storie che più rispondano a una mia curiosità, come quelle ultime del circo, dove ho potuto esprimere la mia voglia di indagare la vita delle persone e delle famiglie che lo popolano, capendo cosa muova quella grande macchina senza tempo.
Dal tuo lavoro fotografico sul circo è nato un libro: Zirkuswelten, pubblicato dalla casa editrice tedesca Frederking & Thaler.
Sono duecento pagine di fotografie, frutto di un lavoro che mi ha accompagnata dal 2016 ad oggi. Un lavoro sulle piccole famiglie circensi che viaggiano come all’inizio del Novecento e che rievoca il film La strada di Federico Fellini – niente a che vedere col grande circo tradizionale -, un circo che si ispira ad un movimento nato negli Anni ’70 chiamato Nouveau Cirque. Si tratta di piccoli gruppi familiari, artisti ed amici che intraprendono il grande viaggio della vita insieme, alcuni addirittura con carrozzoni trainati da cavalli o con delle roulotte. Niente di sensazionale, niente animali, ma il mescolarsi di arti quali teatro, danza e acrobazia, in una storia raccontata dall’inizio alla fine. Nel Nouvou Cirque si racconta una storia un po’ come se si stesse assistendo a un’opera teatrale. Ho fotografato sei circhi in diverse parti d’Europa, viaggiando e vivendo con loro. È sicuramente il lavoro a cui sono più legata e in cui mi sono potuta esprimere realmente. Quello che meglio racconta la mia anima.
Cosa ha significato per te iniziare a fotografare?
L’inizio per ogni fotografo è sempre particolare, bisogna partire dal chiedersi che cosa siamo pronti a lasciare andare di noi stessi, della nostra zona di comfort, per affacciarci a qualcosa che non dà né sicurezze né certezze economiche o di risultato in termini di successo e guadagno. O si parte da una forte motivazione oppure non si arriva da nessuna parte, perché una carriera del genere non è certo facile da intraprendere. Io ho cominciato per caso. A un certo punto della mia vita, sono passata dal viaggio al racconto. Vengo da una famiglia di viaggiatori, entrambi i miei genitori erano assistenti di volo e con loro mi spostavo spesso in altri continenti anche per lunghi periodi. Probabilmente quello è stato proprio l’inizio. Poi, quando si capisce qual è la direzione giusta, l’universo ci assiste e mette sulla nostra strada una serie di casualità favorevoli. Che è quello che è accaduto a me.
Cosa è successo esattamente?
Ho cominciato a lavorare per caso sul set di un film, Capitano Ultimo, e lì ho poi conosciuto un gruppo di persone particolari che mi avrebbero aperto la strada al documentario: una famiglia rom. Ho lasciato il cinema e mi sono avvicinata a una fotografia documentaristica. Sono stata quattro anni a contatto con questa comunità e ho avuto la possibilità di sperimentare – tutti i giorni – un tipo di fotografia che non avevo mai sviluppato, lo storytelling.
Progetti futuri?
Ho iniziato un lavoro in Spagna, ma non posso dire di più: parla di antiche famiglie e matriarcato.
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