È importante dedicarsi ai più giovani, proponendosi come modelli e offrendo aiuti concreti per comprendere la vita. Una trasmissione di nozioni che farà bene ad entrambi.
La lettura dei recenti dati Invalsi, che hanno messo in luce il deficit di apprendimento di molti giovani, è fonte di preoccupazione per l’intera comunità. Sembra difficile identificare le mancanze del sistema e quindi i possibili provvedimenti da attuare. E così continua a ripetersi, anno dopo anno, lo scenario delle diseguaglianze geografiche e di censo, che sono davvero angoscianti per chi vorrebbe una scuola che prepara alla vita, che aiuta tutti i giovani, in particolare quelli che partono da una situazione svantaggiata.
Di fronte a questa realtà, gli anziani potrebbero costituire, in modo più o meno formale, una forza di supporto per approfondire alcuni aspetti della formazione dei giovani?
Schematicamente riporto alcune osservazioni, utili per affrontare la tematica.
È necessario partire dalla constatazione che molti anziani che afferiscono a 50&Più sono portatori di una cultura adeguata per accompagnare i ragazzi delle primarie e delle medie. Molti conoscono la matematica, perché l’hanno esercitata nei luoghi di lavoro per molti anni; molti hanno vissuto una vita associativa che li ha allenati all’organizzazione e alla definizione di alcuni obiettivi personali e di gruppo; molti, inoltre, sono stati lettori dei giornali della loro città, sia per scelta personale sia come impegno derivante dal dovere professionale di seguire gli eventi locali. Partendo da questa realtà, potrebbe essere relativamente facile per loro compiere una scelta e impostare programmi personali o di gruppo per seguire l’evoluzione scolastica dei giovani.
Come potrebbe essere organizzata questa disponibilità? Per prima cosa dovremmo convincere gli anziani della loro effettiva capacità di dare un aiuto concreto, non un generico supporto. A questo proposito, ricordiamo che il 75enne di oggi ha le capacità psicofisiche di un 65enne di vent’anni fa; non gli sarà quindi difficile trasmettere la capacità di lettura e di spiegare il senso di alcune parole che un ragazzo non riesce a interpretare (si tratta della più grave mancanza messa in luce dall’indagine Invalsi). Non sarà nemmeno difficile trasmettere le nozioni importanti per far di conto e quindi per aiutare a capire in termini quantitativi come il mondo cambia. Non lo sarà neppure far interessare i giovani alla lettura del giornale, iniziando con lo spiegarne la struttura e la capacità di trasmettere informazioni critiche, a differenza dei social, che sono spesso dogmatici e non ammettono dissensi.
Questo lavoro arricchisce l’anziano, prima ancora che il giovane, perché attiva il suo cervello; è ben noto, infatti, che la stimolazione cognitiva, cioè l’attenzione verso problematiche interessanti e coinvolgenti, è il miglior “farmaco” per mantenersi giovani. Quindi l’impegno non è totalmente e solo verso l’altro, ma è in grado di produrre effetti benefici anche su chi si impegna nell’azione educativa.
Quali potrebbero essere le modalità migliori per esercitare questa capacità? Certamente a partire dalla famiglia, dove il nonno trova uno spazio più facile da riempire, anche grazie all’affetto che spesso lega le generazioni. Poi nella scuola, dove sarebbe opportuno lasciare spazio, accanto agli insegnanti, anche ad alcuni anziani, in grado di indicare con maggiore concretezza i luoghi e gli ambiti dove una cultura vivace e attenta alla realtà potrebbe produrre effetti utili per il futuro. L’anziano mostra se stesso e la sua storia come esempio realistico dei vantaggi derivanti da una cultura concreta e immersa nelle realtà della vita.
Un altro spazio potrebbe essere ricavato nei doposcuola, sia quelli formali sia quelli realizzati in modo spontaneo da volontari. In queste realtà l’anziano esercita il massimo delle capacità di “maestro” di vita. Spesso tra vecchi e giovani si instaura un rapporto intenso, che porta a risultati importanti. Il vecchio che insegna a vivere bene non si pone in antitesi ai social o agli altri mezzi di comunicazione di oggi; gli basta far capire che a lui la conoscenza della matematica e dell’italiano è servita nell’espletamento del proprio lavoro, nel conservare autonomia e libertà nelle diverse situazioni della vita, soprattutto in quelle più critiche, quando l’individuo deve mostrare con coraggio la capacità di costruire il proprio futuro.
Così l’anziano dimostra a se stesso di essere ancora capace di costruire un mondo futuro dove potrà essere rispettato indipendentemente dagli anni, grazie alla presenza di giovani formati alla vita e con competenze adeguate per esercitare un lavoro. Se, invece, per timori di inadeguatezza o per paura di non essere accettata la persona non più giovane rinuncia e si rinchiude nel suo spazio, perde un’occasione fondamentale per costruire un mondo più bello, dove giovani e anziani vivono aiutandosi a vicenda. È un’impresa “possibile”, in linea con le molte altre possibilità che ci compaiono davanti anche in età avanzata; anzi, con qualche vantaggio rispetto alle altre di cui ci stiamo occupando in questa rubrica, perché qui si tratta di un impegno che ha ricadute stabili, a lungo termine. I giovani, infatti, in alcuni momenti critici hanno bisogno di essere aiutati ad essere, con le loro piccole forze, costruttori di futuro… Impresa complessa, ma non impossibile.
Marco Trabucchi è specialista in psichiatria. Già Professione ordinario di Neuropsicofarmacologia all’Università di Roma “Tor Vergata”, è direttore scientifico del Gruppo di Ricerca Geriatrica di Brescia e direttore del Centro di ricerca sulle demenza. Ricopre anche il ruolo di presidente dell’Associazione Italiana di Psicogeriatria e della Fondazione Leonardo.
© Riproduzione riservata