Michela Fontana. Nata a Milano, vive ad Arona (No). Ex insegnante di diritto, ex membro della Consulta femminile di Arona, ex Giudice di Pace. Da sempre coltiva il piacere di scrivere per fissare ricordi, emozioni, affetti. Partecipa al Concorso 50&Più dal 1993: nel 2000 ha vinto la Farfalla d’oro per la prosa, nel 2011 ha ricevuto la Menzione speciale della giuria per la poesia e nel 2022 ha vinto la Farfalla d’oro.
Lui: professore universitario incaricato sui 30/40 anni, circa 60 anni fa si era trovato a presiedere la commissione di esami di maturità classica in una città di provincia. Era un poco impacciato per la novità, ma non lo dava a vedere, autorevole, dignitoso e persino inconsapevolmente bello, con i suoi radi capelli biondi e gli occhi azzurrissimi.
Lei: diciottenne esuberante, spavalda, in anticipo sulle rivendicazioni femministe del ‘68. Non proprio bella, ma piacevole, coi suoi capelli biondi e gli occhi azzurri, soprattutto attraente per quella sua aria allegra e accattivante. Non certo un’allieva modello nelle materie scientifiche, anzi, ma portata con successo a quelle letterarie, che amava, specie l’italiano. Alla maturità, infatti il suo tema risultò il migliore.
Il giorno in cui esposero i risultati, galvanizzata dal successo, osò avvicinarsi al Presidente, per snocciolargli quello che aveva rimuginato per tutto il tempo dell’esame. “Sono contenta del risultato, ma dispiaciuta perché non la vedremo più. Tutte quante ci siamo innamorate di lei e io in particolare”.
Lui, rimasto di sasso, riuscì solo a dirle: “Stia tranquilla, passi una bella estate e poi vedrà che non si ricorderà neanche più di questo professore tanto più vecchio di lei”.
Passò l’estate; per fortuna dell’ “impunita” c’erano ancora gli esami di riparazione, così, con la scusa di accompagnare un’amica rimandata, lo ritrovò e tornò implacabile all’attacco: “L’estate è passata ma non mi sono scordata. Sarebbe una tragedia o invece una cosa allegra se mi telefonasse, così potremmo conoscerci meglio e mi darebbe dei consigli per l’Università?”. Lo sventurato rispose. Così iniziò una specie di storia che si srotolò nei 4 anni di studi: Lei, pendolare, si recava al capoluogo all’Università Statale, facoltà di giurisprudenza, lui, insegnante di glottologia a Lettere alla Cattolica. Gli incontri erano sempre provocati da lei, lui, piuttosto reticente, preso dagli studi per conquistare la cattedra di ruolo e frenato da un certo perbenismo e paura, si lasciava a un certo punto coinvolgere
, di buon grado. Infatti, gli incontri erano felici: lui si abbandonava a una leggera allegria, trovando una giovinezza mai vissuta, lei restava affascinata dalla storia della sua vita: di famiglia povera, aveva lottato per successo, appassionato alle sue ricerche e senza distrazioni, viveva con l’anziana madre.
Le loro effusioni, limitate, dati i “tempi antichi”, il rigore morale di lui e l’inesperienza di lei, bastavano a renderli abbastanza felici, con la convinzione di essere innamorati. Ma era una storia impari: lui, così importante, rappresentava per lei una specie di trofeo, lei per lui un grazioso giocattolo. Talora lei cercava, nei momenti di grazia, di fare progetti per il futuro: “Pensa, se ci sposassimo, biondi come siamo, avremmo dei figli “tedeschini”, anche in onore della tua filologia germanica!” Lui si schermiva: finché non fosse stato di ruolo non poteva fare progetti. I 4 anni di studio passarono in fretta, lei felicemente laureata tornò nella sua cittadina e in seguito superò il concorso per insegnare diritto negli istituti tecnici. I contatti con lui divennero sempre più rari, però gioiosi e spensierati, gli aveva persino insegnato a ballare, dopo molte riluttanze!
Finalmente un giorno fu lui a cercarla. “Ho vinto la cattedra, potremmo cominciare a pensare a noi”. Quella volta inopinatamente lei restò sbigottita: a furia di rincorrerlo, stremata, non aveva realizzato se veramente la vita con lui sarebbe stato quello che desiderava. Maturata e consapevole si rese conto che anche da sposata sarebbe stata marginale nella sua vita: un divertente intermezzo tra un suo viaggio e l’altro per studio, una pausa precaria nella sua vita di docente impegnato. Si concesse del tempo per riflettere e lui, al solito, non insistette. Lei, nel frattempo frequentava amici della sua età,
meno affascinanti e impegnativi, certamente più facili e vicini. Dopo qualche mese di silenzio gli mandò la sua partecipazione di nozze. Lui rispose inviando l’invito per la cerimonia di conferimento dell’agognata cattedra, nello stesso giorno di maggio. Sull’invito scrisse: “Anche le date hanno un destino”, l’unica volta in cui le scrisse, a differenza di lei che negli anni l’aveva sommerso di missive.
Passarono molti anni di lontananza e silenzio: lei madre di tre figli amata e riamata con alcune difficoltà e insieme insegnante di studenti a loro volta amati e riamata con altrettante difficoltà. Il suo matrimonio si stava esaurendo per mancanza di slancio, forse una separazione consensuale sarebbe stata una soluzione dignitosa. Di tanto in tanto per evadere dalla realtà quotidiana, riprendendo un’abitudine che la consolava da sempre, scriveva brevi racconti, per fissare ricordi, emozioni, sentimenti. Teneva i suoi scritti segreti, per il malinconico timore che nessuno potesse capirla.
Lui, sempre più importante nel campo accademico, aveva a sua volta preso a scrivere, si trattava di annotazioni profonde, romanzi di successo … era insomma diventato un personaggio nell’ambito letterario, un vero Maestro.
In un giorno qualunque per caso lei lesse che lui avrebbe presieduto la commissione esaminatrice di un prestigioso premio letterario. Con rinnovato spirito giovanile decise di parteciparvi, usando il cognome del marito, per evitare un eventuale “conflitto d’interesse”. Come per il tema della maturità vinse il primo premio e quindi si presentò alla cerimonia, euforica. Così si rincontrarono e lei ebbe giustificato motivo per avvicinarlo. Lui, affabile e più sicuro di sé, senza essere vanesio, l’accolse con sincero entusiasmo.
“Avrei dovuto riconoscerti dal tuo modo di scrivere, ma con quel cognome … “.
Si raccontarono in fretta tanti anni, almeno 30. “Ho avuto tre figli bruni, non tedeschini e tu ti sei sposato?”. “Dove la trovavo un’altra pazza scatenata come te?”. Cadde un silenzio, imbarazzante, poi: “Ma dov’è finita la tua disinvoltura, sembri quasi spenta”. “L’insulto degli anni e poi, anche se non c’entra niente, mi viene in mente una canzone che ci piaceva tanto, “Voce ‘e notte”, quando dice che i due ragazzi “scuornusi” non osavano darsi del tu”.
“Non ti riconosco, fatti viva che dobbiamo ritrovarci e recuperare il tempo perduto. Ti cercherò”.
Non lo fece e anche lei rimandò sempre la possibilità di un nuovo incontro che non avrebbe rinverdito la freschezza del passato né lasciato prospettive per il futuro: lui così intransigente nella sua morale tradizionale e così noto non avrebbe potuto vivere una storia con una donna sposata sia pure separata. Qualche volta, presa da nostalgia lei, ormai sola e in pensione, andava ai premi presieduti da lui, ma senza presentare nulla, confusa tra il pubblico e senza osare avvicinarlo, solo per vederlo.
Passarono anni ancora e ormai erano diventati due vecchi. Dopo un periodo di silenzio lei lesse che gli sarebbe stata conferita un’importante onorificenza, tipo premio alla carriera. Quella volta decise di raggiungerlo, per condividere quel momento di gioia e testimoniargli il suo affetto sopravvissuto.
Lo vide camminare a fatica, da ottuagenario pure mantenendo una certa dignità, ma con lo sguardo spento, remoto, la voce incrinata dallo sforzo di “far finta di essere sano”. Così debole e solitario finalmente si sarebbe abbandonato totalmente a lei, senza remore, nella ricerca di un passato comune, ma allontanò da sé l’impulso di lasciarsi andare a sua volta. “Scuornusa” rinunciò ad avvicinarlo per evitargli lo “scuomo” di mostrarsi com’era e in tanti anni quella fu la prima volta che lo amò davvero.