Alla fine della Seconda Guerra Mondiale sul confine orientale si consuma una dolorosa pagina di storia. Ecco come si è arrivati a quegli eventi sanguinosi e perché è importante ricordarli, al di là di ogni retorica
Con una legge ad hoc, nel 2004 l’Italia istituisce, a più di 60 anni dai fatti, il Giorno del Ricordo per commemorare la sorte di tutte le vittime delle foibe e dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel dopoguerra, tutti stritolati dalle complesse vicende del confine orientale seguite al crollo del fascismo. Una memoria che lo stesso presidente Mattarella non stenta a definire “un impegno di civiltà”, poiché «il ricordo, anche quello più doloroso, può diventare seme di pace e di crescita civile». E che insegna, una volta in più, come sia impossibile comprendere gli eventi della storia senza ripercorrere la lunga catena di accadimenti, spesso tragici, che li hanno prodotti.
Il termine foibe deriva dal latino fovea e indica cavità profonde anche decine di metri, tipiche dei terreni carsici della regione Giulia e, per estensione, gli eccidi di migliaia di italiani lì gettati dalle forze dei Comitati popolari jugoslavi di liberazione intorno la fine del secondo conflitto mondiale. Ma come si è arrivati a tanto? Nel 1943 per l’Italia le sorti della guerra volgevano ormai al peggio. Alla storica riunione del Gran Consiglio del Fascismo era seguito lo scioglimento del partito, la resa dell’8 settembre e lo sfaldamento delle Forze armate. In seguito a ciò i tedeschi presero Trieste, Pola e Fiume, mentre in Istria, annessa all’Italia alla fine della Prima Guerra Mondiale, assunse il potere il movimento di liberazione jugoslavo. In un quadro confuso questa venne quindi annessa alla Croazia e iniziarono le prime purghe contro gli italiani, accusati di avere governato quelle zone col pugno di ferro e in senso anti-slavo durante il fascismo. Ben presto l’ondata di violenza colpì non più solo gerarchi e alti funzionari, ma anche qualsiasi appartenente alla comunità italiana, in quanto “nemico del popolo jugoslavo”. Il nome foibe suona oggi ancora sinistro anche perché la maggioranza delle vittime vi fu gettata ancora in vita. Le fonti infatti raccontano che i condannati, legati l’un l’altro, venivano condotti sull’orlo della fenditura. Qui le raffiche di mitra colpivano i primi della fila, che cadendo trascinavano con sé i compagni di sventura. Il più alto numero di vittime si consumò a partire da maggio del 1945, quando era in gioco la futura divisione dell’Europa. La nuova Jugoslavia puntava a Fiume, Trieste e Istria con l’obiettivo di occupare la Venezia Giulia prima dell’arrivo degli alleati. Ripresero gli arresti della popolazione italiana, anche in vista di una “slavizzazione” del territorio, e seguirono nuove uccisioni. Chiunque fosse contrario all’annessione del Friuli Venezia Giulia alla Jugoslavia rischiava la vita. Iniziò così l’esodo dei cittadini giuliano-dalmati (circa 350mila) alla ricerca di un futuro in Italia, dopo aver abbandonato tutti i loro beni. Fu una fuga di massa che spopolò intere città come Fiume dove, entro la fine del 1946, 20.000 persone dovettero abbandonare case, averi e terreni. La vicenda si concluse il 10 febbraio del 1947 (data scelta per il Giorno del Ricordo), con la firma del Trattato di Parigi, che sancì il confine italo-jugoslavo, concedendo alla neonata Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia il diritto di requisire i beni appartenuti ai nostri concittadini in fuga che, d’altro canto, lo stesso governo italiano si impegnava a risarcire. Ma gli eventi futuri aggiunsero ingiustizia ad ingiustizia. Mentre a est calava la cortina di ferro, l’Italia, alle prese con la transizione politica e la ricostruzione, non riusciva a garantire un’equa distribuzione degli indennizzi, lasciando che la maggior parte degli esuli cercasse fortuna altrove, con l’amara sensazione di essere stati i soli a pagare, di tasca propria, i debiti di guerra. Una pagina triste della Repubblica, soprattutto dopo che la Corte di Cassazione, nel 2014 ha escluso altri risarcimenti per le migliaia di esuli giuliani e dalmati che persero i propri beni nei territori ceduti alla Jugoslavia.
Slavi e italiani si sono accusati a vicenda di nefandezze e crudeltà nei territori contesi ed è ancora difficile per gli studiosi e per i comuni cittadini affrontare questi avvenimenti con distacco storico, senza sfociare nel dibattito politico, nell’acredine del risentimento o nell’indulgenza del dolore. Tuttavia – nella condanna di qualsiasi nazionalismo – il riconoscimento di questi accadimenti travagliati è necessario per ristabilire dignità alle migliaia di vittime coinvolte, molte delle quali anziani, donne e bambini. Tra queste Norma Cossetto (medaglia d’oro al valor civile), don Angelo Tarticchio e le tre sorelle Radecchi. Oggi che la foiba di Basovizza, a Trieste, è monumento nazionale, è doveroso ricordare, perché il futuro di una nazione si costruisce solo facendo i conti col suo passato.
A partire dal 1945, ebbe inizio l’esodo dei cittadini giuliano-dalmati, che abbandonarono case e averi alla ricerca di un futuro in Italia. L’esodo coinvolse circa 350mila persone, lasciando quasi completamente spopolate intere città, tra cui Fiume.
© Riproduzione riservata