Heidi Flores. E’ nata a l’Avana da genitori italiani e ha vissuto i primi anni in Centro America, tra Cuba e Belize, e successivamente in varie parti d’Italia fino ad approdare in Mozambico dove ha trascorso la maggior parte dell’adolescenza. Rientrata in Europa negli anni ’60 ma ormai cittadina del mondo ha intrapreso gli studi naturalistici e linguistici, lavorando in Italia per diversi studi universitari americani. In tutto questo tempo non ha mai smesso di coltivare la passione per i viaggi e le letture di avventure vissute e immaginate. Partecipa al Concorso 50&Più per la prima volta. Vive a Vicchio (Fi).
A quei tempi si volava ancora su aeroplani a elica. Era già ad attenderci sulla pista l’aereo che avremmo preso, le hostess pronte ad accoglierci. Mi feci coraggio canticchiando “Arrivederci Roma”, in voga in quegli anni. Avevo quasi 11 anni ed era il mio primo viaggio da ragazzina, dei voli precedenti non avevo ricordo. Tenevo il fratellino più piccolo per mano, mia madre con gli altri due mi precedeva con passo nervoso. Sulla scaletta mi girai come per salutare qualcuno, ma sapevo che non saremmo tornati per molto tempo e mi si strinse il cuore.
Le eliche si avviarono una ad una, scoppiettando e dopo una lunga corsa sulla pista, ci alzammo in volo. Atterrammo come primo scalo ad Atene, ripartimmo poi verso sud per Khartoum, Entebbe e poi Nairobi, Salisbury, sostammo in aeroporti improvvisati sotto lamiere roventi, tra odori acri di campi e eucalipti tremolanti e finalmente dopo 25 ore, arrivammo a Johannesburg. Era luglio, avevamo lasciato un’estate calda ed afosa, ma lì sull’altopiano del Transvaal era inverno. All’arrivo abbracciammo nostro padre con gioia ed emozione, non lo vedevamo da gennaio. Per arrivare alla nuova vita a Lourenço Marques, oggi Maputo, Mozambico, ci attendeva un viaggio in auto di circa 600 chilometri. Trascorremmo la prima notte nell’emisfero sud in un lodge lungo la strada. Ricordo che faceva molto freddo, l’aria era tersa, profumava di fresco e di erba e nel cielo, che quasi si toccava, le stelle brillavano.
Al mattino riprendemmo il viaggio. Dritte come fusi le due corsie attraversavano la savana bruciata, qua e là interrotta da massi granitici. Noi quattro eravamo dietro, assorti dal dondolio della macchina. Guardavo dritto e cercavo d’immaginare il nuovo mondo che mi attendeva. Come sarebbe stata la nostra casa? Di che colore era l’oceano? Davanti, i miei genitori parlavano tranquilli. L’orizzonte spaziava largo e basso, ma a perdita d’occhio il paesaggio era sempre lo stesso, arbusti brulli e secchi. Al tramonto il cielo improvvisamente esplose di giallo, poi rosso, poi viola e poi, come se si fosse spento un interruttore, piombammo nel buio profondo. Solo gli abbaglianti illuminavano l’asfalto nero con la striscia bianca che ci guidava nella notte. Non c’era nessuno sulla strada. I miei fratelli dormivano accanto a me. La frontiera ormai alle spalle, scorsi le luci della città. Mi ripresi dal torpore e già immaginavo l’immenso Oceano Indiano che presto avrei intravisto alla mia sinistra. Gustavo l’emozione di essere arrivata in capo al mondo. Mio padre imboccò la Marginal, un viale illuminato che attraversava la città e portava sulla collina dove avremmo abitato. Guardai con impazienza dal finestrino per essere la prima a scorgere l’oceano, ma ad un tratto si frantumò l’unica certezza che mi ero costruita durante il lungo viaggio: l’oceano era alla mia destra! Mi sembrò che il mondo si fosse capovolto.
E le sorprese furono tante altre ancora. Nel parco della nostra casa sulla collina di Maputo trovai un angolo nascosto da alberi altissimi fino al cielo, circondato da una boscaglia fitta e buia che immaginavo fosse abitata da chissà quali spiriti africani. Quello diventò il mio rifugio segreto, dove potevo ascoltare il vento tra le fronde e respirare l’aria umida dell’ombra. Quando nuovi eventi inaspettati mi sommergevano, scappavo lì ed è lì che cominciai il mio diario di ragazzina, regalatomi da mio padre, con dedica: “alla cara cubanita, da un continente all’altro, da un mare a un altro, scrivi le tue impressioni e i tuoi ricordi. Ma non dimenticare che il paese più bello è sempre la nostra piccola ma tanto grande Italia”. Era vero, per la mia giovane età avevo già viaggiato parecchio, non conoscevo altro che traslochi in case nuove e odori di terre diverse, da Cuba dove ero nata , avevo attraversato l’Atlantico fino all’Europa, poi dai nonni in Toscana, poi in Sicilia, poi a Roma. E poi agli antipodi, ancora altro mare, ancora altri orizzonti. Nel mio rifugio sotto gli alberi mi accorgevo che la curiosità per l’altrove, per il nuovo e per l’ignoto, già s’insinuava nella mia mente.
I primi giorni nella scuola dove avrei imparato l’inglese, furono pieni di stranezze. Appena arrivata, mi misero a marciare con gli altri bambini cantando “Onward Christian Soldiers” dopo la riunione mattutina. Seppi più avanti che cantare l’inno dopo “assembly” era usanza frequente nelle scuole anglosassoni. Oltre al chiaro significato di missione cristiana nel mondo, il ritmo cadenzava l’uscita dalla sala e ossigenava i nostri polmoni. Durante la ricreazione ci si arrampicava sugli alberi di avocado o di mango che abbondavano nel giardino, ben diverso dai cortili lastricati delle scuole che avevo frequentato. Tutto era imprevisto. La matematica fu l’osso duro quel primo anno, perché in quella scuola usavano ancora insegnare le addizioni sommando la moneta del Regno Unito, “pounds, shillings and pence”, i pesi si misuravano in libbre e once, e le distanze in miglia e piedi, sebbene fossimo in Mozambico, all’epoca colonia portoghese.
Imparai in poco tempo quanto fosse necessario seguire le lezioni di geografia, storia e inglese per potermi iscrivere al Dominican Convent High School, a Salisbury, oggi Harare, a 2000 chilometri da casa. Sarei dovuta andare in un collegio inglese in Rhodesia, oggi Zimbabwe, non c’era altra possibilità poiché la scuola di Maputo finiva con la mia classe. Mi piacque l’idea del collegio, l’accettai come sfida.
Fu sicuramente una sfida. Le mie compagne venivano dalle fattorie di tabacco della Rhodesia del Sud, e non tutte sapevano dove era l’Italia. Dovetti attingere alle mie poche risorse per adeguarmi alle ferme regole della convivenza con tante ragazze e non arrendermi alla nostalgia di casa. Ricordo che nella mensa si poteva parlare solo dopo il consenso della suora che presidiava il tavolo. Ricordo che ognuna di noi aveva un turno settimanale per lavare e asciugare le posate in cucina, compito che ci lasciava un odore forte sulle mani. Ricordo lunghi pomeriggi trascorsi tra nuoto e tennis e lacrosse, o alla lezione di pianoforte, o al club del giardinaggio o al coro o nell’aula di cucito. Ricordo le sporadiche uscite in città per fare spese insieme alle altre ragazze. Indossando il blazer della divisa con il motto della scuola “Veritas” ricamato sul taschino e il cappello tondo di feltro beige calato sulla testa, camminavamo spedite con occhi bassi e nessuna distrazione.
Ben presto i trimestri trascorsero in un baleno. La vita del Dominican Convent mi piaceva, ma era sempre una festa tornare a casa per le vacanze. Quelle di Natale spesso le trascorrevamo in campeggio sulla riva della laguna di Bilene, un villaggio del Mozambico più a nord di Maputo. Per raggiungerlo, ricordo viaggi avventurosi su piste di sabbia e l’emozione mista a paura quando si doveva attraversare un fiume gonfio d’acqua. Con l’auto sulle tavole di legno del traghetto scalcinato, gli abitanti delle capanne lungo il fiume, allineati in due file, ci conducevano sull’altra riva tirando su grossi canapi a ritmo di cori incalzanti. Ricordando lo scorrere del fiume, la mia memoria torna ad una vacanza in particolare, che segnò un passaggio importante della mia vita di ragazzina.
La laguna si riempiva di acqua di mare fresca, quando la lingua di sabbia che la delimitava a sud lungo l’oceano, rimaneva sommersa dall’alta marea. Grandi pesci potevano così rimanere intrappolati, mante giganti, delfini, squali.
Nella laguna c’era una netta divisione tra l’acqua più vicina all’oceano e quella a riva come se fosse stata disegnata con un righello: il colore blu intenso, scuro, profondo, quasi minaccioso più lontano e poi, come se un pittore lo avesse deciso sulla tavolozza, diventava turchese trasparente vicino alla riva. I pescatori del posto ci dicevano che in acque basse generalmente i pesci grossi non osavano inoltrarsi, rimanevano nell’acqua blu.
Per noi bambini abbandonarsi nell’acqua turchese era avventurarsi nel regno dell’emozione pura, nella serenità avvolgente della gioventù dove tutto era possibile.
Un giorno provai gli sci d’acqua, un regalo di mio padre. Traballando mi alzai sulle assi larghe e tozze e con la sbarra stretta tra le mani, la barca prese velocità. Scivolavo sull’acqua trasparente morbida come velluto. Mi sembrava di solcare il mare come la prua di una caravella, la salsedine sul viso e lo sciabordio delle tavole sull’acqua. Provai qualche acrobazia, virando bruscamente su un lato. Gli schizzi arrivavano alti. La barca s’inoltrò oltre il confine del mare turchese ed ebbi paura. Mollai la presa sulla sbarra e caddi, gli sci si sganciarono veloci. Il mare era piatto, ma infinitamente blu notte. Cercai di attirare l’attenzione di mio padre urlando a squarciagola, ma non sentiva sopra il rumore del motore. Cominciai a nuotare verso la riva, quando vidi avvicinarsi la pinna dorsale dello squalo. Un brivido di terrore mi paralizzò. Percepivo quella creatura possente che si dirigeva verso di me nell’acqua scura. Mi vidi già azzannata dal grande pesce, già trascinata sott’acqua dalla sua potenza. Ero spacciata. All’improvviso la laguna era diventata insidiosa, sleale, piena di mistero. Sembrò un’eternità quando due braccia mi afferrarono e mi ritrovai in fondo alla barca, sorpresa e salva. Sull’acqua vidi galleggiare un pezzo di timone di legno di qualche barca da pescatore. Potevo aver confuso quell’innocua tavola per la pinna dello squalo? Forse. Ma rimasi con il dubbio. La linea di demarcazione tra il turchese e il blu scuro si confuse, la spensieratezza svanì lasciando spazio al timore e alla consapevolezza dell’ignoto nel mare profondo.
Trascorsi due anni dall’arrivo in Mozambico, tornammo tutti insieme in Italia per una lunga vacanza. Imbarcati a Durban su una delle eleganti navi del Lloyd Triestino, costeggiando la costa orientale africana facemmo scalo a Zanzibar, Dar es Salam, Mombasa, Aden, Suez per poi risalire il canale fino a Port Said, Brindisi e Venezia. Quella volta capii che l’oceano era alla mia destra, non mi meravigliai più come all’arrivo. Il mondo era sì sottosopra, ma era il mio mondo ormai e sebbene presentasse sorprese impensate e incontri imprevisti, mi accompagnava nel passaggio da bambina a ragazza e mi piaceva così.