I numeri non li ho, ma so dove prenderli. La notizia viene da fonte attendibile. La spartisco con voi perché mi pesa moltissimo e il modo migliore che conosco per tenere a bada il peso dell’angoscia è scrivere, condividere, ragionare insieme.
La notizia è questa: una percentuale alta e crescente di vittime di violenza da parte di mariti ed ex mariti è composta da donne anziane. Anche molto anziane.
Lì per lì mi sconvolge lo stupore: possibile che la sfrenatezza dei sentimenti di rivalsa, di gelosia, di possesso, coinvolga quelle età della vita che per solito – o per comodo – vengono accompagnate e descritte da aggettivi come sagge, equilibrate, risolte, pacificate? Poi sopraggiunge l’orrore: la donna anziana è uno zero sociale, cioè, tale è considerata. Non è più sessualmente attraente, non è più feconda, non è più – se pure è mai stata – potente sul luogo di lavoro. Fisicamente è più fragile. Cammina più adagio. Alla stazione si fa sollevare la valigia per salire sul treno. La folla la intimidisce. Il vuoto, il silenzio, la notturna desertificazione della città o della campagna le fa paura. La casa, come un guscio di lumaca, è l’unico luogo dove si sente protetta. Eppure è proprio in casa che avviene la maggior parte delle aggressioni alle donne anziane. Ad opera di ex mariti, ma anche, in qualche caso, di nipoti in cerca di soldi.
È in casa che avvengono le tentate truffe, che speculano sul bisogno di rompere la solitudine o di sperare in un guadagno, o di sperare, in generale, in qualcosa, qualsiasi cosa.
Da vecchi, e scusate se uso quest’aggettivo inviso ai più, la fame di futuro, il desiderio che la vita continui ed offra ancora qualche sorpresa è molto forte. È questo che rende la vecchiaia più fragile? Forse.
Ma che cosa succede nella mente di un uomo, nel momento in cui alza le mani su una donna che potrebbe essere sua madre o che è stata insieme a lui, nello stesso letto, a crescere figli e nipotini per tutta un vita?
Le carceri, in genere, sono occupate più dagli uomini che dalle donne. Le carceri, in linea di massima, sono occupate più da giovani che da vecchi. Chi è vecchio essendo in carcere, per lo più, sta scontando una pena lunga, non ha delitti recenti di cui rendere conto.
Dovrebbe sopravvenire la pace, ad un certo punto della vita, e quel minimo di empatia che ti spinge a non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te.
Come puoi far vincere la passione buia dell’aggressività se hai vissuto a lungo, hai visto i torti e le ragioni, hai capito che nessuno è completamente cattivo e nessuno è assolutamente buono. Che siamo tutti deboli e confusi, incerti, impauriti, che abbiamo tutti paura di quello che ci riserva il futuro.
Quando, un paio d’anni fa, si è parlato di chiedere a Parigi l’estradizione per Giorgio Pietrostefani e altri rifugiati politici (scappati in Francia e lì accolti in applicazione della “dottrina Mitterand”) perché scontassero la loro pena in Italia, molti, e io ero fra quelli, hanno protestato che si trattava di mettere in prigione delle persone molto avanti con gli anni, a prescindere dal fatto che fossero colpevoli o innocenti o non troppo colpevoli.
Si trattava, in ogni caso, di giudicare una generazione che aveva avuto vent’anni molto a lungo (parliamo di Lotta Continua e dintorni, partitini della sinistra extraparlamentare, attivi negli anni Settanta del secolo scorso) e che ora si avviava alla fine della vita, nel caso di Pietrostefani anche in cattive condizioni di salute.
Se la prigione deve essere, come tutti cantano in coro, un luogo non tanto di detenzione quanto di rieducazione, ha senso porsi il compito di rieducare un ottantenne?
Personalmente, come ho sostenuto con forza nel mio ultimo libro Age Pride. Per sconfiggere i pregiudizi sull’età, io credo che la vita debba durare tutta la vita e quindi che sia giusto rispondere delle proprie azioni fino “al completo arresto dei motori”. Credo che si possa continuare a studiare, a capire, a insegnare.
Finché si respira si può cambiare. Tuttavia, una misura come il carcere inutilmente punitiva (o inutile in quanto punitiva) va risparmiata a chi ha più di settant’anni.
Così la pensa la parte garantista e progressista di me. Poi c’è l’altra, quella che ha ricevuto questa lettera e l’ha patita. Tanto da formulare il seguente pensiero: ma sbattiamolo in galera questo vecchio animale!
Chiamiamola Iris, la sconosciuta che mi ha scritto presso la casa editrice per cui pubblicavo la collana di romanzi rosa Terzo tempo (ne abbiamo parlato anche in queste pagine), storie d’amore con protagonisti vecchi o quasi vecchi.
Ve ne sottopongo soltanto alcune righe, per condividere e spartire il peso di quella malinconia di cui parlavo all’inizio di questo articolo.
«Cara signora Ravera, ho letto con grande piacere tre dei romanzi che avete pubblicato, sono divertenti, ma non sono veri. Io ho 77 anni, due anni fa, dopo una vita di umiliazioni e calci e pugni e occhi neri di cui mi vergognavo con le colleghe, ho trovato il coraggio di lasciare mio marito. L’ho trovato anche perché ho trovato un’anima gemella, no, non un uomo affascinante come nei suoi romanzi rosa, una donna, di poco più giovane di me, ma forte e allegra e con una vita dietro di lei senza violenza né umiliazioni. Quando mio marito (non mi ha concesso il divorzio e io non ho insistito) si è accorto che ero andata a vivere con questa amica si è fatto dare l’indirizzo da una delle mie figlie ed è piombato di notte in casa. Era ubriaco come l’ho visto milioni di volte. Ma non era a mani nude. Aveva un coltello e con quel coltello ha rovinato per sempre il volto della mia amica. Non abitiamo più insieme, le ho chiesto mille volte perdono ma non è stato possibile tornare a vivere insieme… allegramente». Faceva l’insegnante questa donna che non si chiama Iris. Anche la sua amica era un’insegnante in pensione da pochi mesi.
Il femminicida, settantasettenne, esercitava la sua ottusa violenza da cinquant’anni. Iris l’ha denunciato.
Per la prima volta dopo 49 anni di matrimonio infelice.
Chissà se si sono chiuse dietro di lui le porte della prigione…
Lidia Ravera è nata a Torino. Giornalista, sceneggiatrice e scrittrice, ha pubblicato trenta opere di narrativa tra cui “Porci con le ali” (Bompiani 1976), “Sorelle” (Rizzoli 1994), “L’eterna ragazza” (Rizzoli 2006), “La guerra dei figli” (Garzanti 2009) e “A Stromboli” (Laterza 2010). Gli ultimi romanzi “Piangi pure”, “Gli scaduti”, “Il terzo tempo”, “Avanti, parla” sono nel catalogo Bompiani. Ha lavorato per il cinema, il teatro e la televisione.
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