Merville Ferrari. Raggiunta la pensione ha potuto dedicarsi alla scrittura di racconti e poesie con rinnovato impegno. Dal 2010, anno in cui ottenne la Menzione speciale della giuria per la poesia, ha partecipato a tutti i Concorsi 50&Più. Anche un suo racconto fu segnalato con Menzione speciale della giuria per la prosa. In questi anni ha partecipato a molti altri concorsi letterari nazionali ed internazionali ottenendo molte soddisfazioni. Vive a Galliate (No).
Nella vettura i due prendono posto vicino al finestrino, lo abbassano e s’affacciano a salutare lo zio. Alcuni attimi d’imbarazzante e interminabile silenzio precedono il fischio del capostazione; via, si parte e tra gli ultimi “Ciao”, “Arrivederci” e ”Saluta tutti” la locomotiva, quasi infastidita da un rituale che ben conosce, sbuffa, s’affanna e vomita vapore con grande schiamazzo come se volesse confondere chi si lascia.
Il treno va e zio Guido scompare alla vista di Pina che ammutolita non può trattenere le lacrime mentre Augusto le sussurra: “Tra un po’ rivedrai zia Susanna, finalmente! Pensa che bello!”.
Il viaggio è monotono; ad ogni stazione il treno si ferma; nomi di paesi per lo più sconosciuti si susseguono; Vercelli è famosa per le risaie, come Novara; Santhià e Chivasso sono conosciuti perché, come al Paese, si celebrano famosi carnevali. Tutti gli altri luoghi dicono poco. Pina non piange più ma osserva il paesaggio che le scorre via; la pianura piatta cede il posto alle colline con le montagne che stanno loro addosso. L’inverno ha versato molta neve che ancora si vede a quote piuttosto basse proprio come sulle montagne che si vedono dal Paese. Il Paese! Lo ha appena lasciato e già manca? Mamma, papà e zio Guido; la nostalgia la sta avvolgendo quando è scossa dal controllore che ha un diverbio con un passeggero senza biglietto. Pina ne resta scandalizzata:
“Come si può salire in vettura senza aver pagato? Che vergogna!”, sussurra ad Augusto che le risponde: “Vedi Pina, il mondo non è tutto uguale. Al Paese ci conosciamo tutti e ci rispettiamo ma esistono anche i disonesti: dobbiamo stare attenti!”. Pina ci riflette su; per il solo fatto di essere in quel mondo così diverso le sembra di tradire quello che è stato il suo sino a ieri: il naviglio, la Roggia Molinara, la centrale elettrica al posto del mulino e Cascina Bella nuova casa. Si sente lontana da tutto e da tutti ma non sola: accanto a lei, pronto a sostenerla, ha il suo Augusto.
Ora il treno procede lento; con un intreccio misterioso i binari si moltiplicano; il convoglio s’insinua tra altri fermi ai due lati; tutto è contenuto in un enorme costruzione e Pina ricorda il racconto di Filippo, il vecchio giardiniere del Conte, che fiero delle sue avventure narrava: “Io, a Torino, ci sono stato due volte da militare e con il fattore, per l’esposizione del 1884. La prima volta credevo che a Torino ci fosse il porto perché dovevo arrivare all’Imbarcadero di Torino che con le barche non centrava niente; i Bugianèn avevano dato questo nome alla stazione dei treni che era tutta di legno perché provvisoria”.
A questo punto il racconto s’arrestava per un poco in modo che tutti potessero fare i propri commenti e riprendeva: “Tirata su nel ‘48 è durata sino al 1861 quando sono iniziati i lavori della cosiddetta Stazione di Porta Nuova che io ho visto finita …”.
A quel punto iniziava la minuziosa descrizione del fabbricato che ad ogni volta diventava sempre più bello e più grande; tutto quel dire non avevano dato a Pina l’esatta dimensione di quanto di grandioso sta ora scoprendo.
In fondo a quell’enorme costruzione il viaggio termina. Augusto avverte Pina trasognata che non v’è fretta e v’è tutto il tempo che si vuole per scendere perché il treno non andrà avanti più di tanto.
Gente frettolosa va da ogni parte; il gran clamore accompagna i loro passi e continua nell’atrio immenso sino all’uscita dove si placa ed è sostituito dal frastuono della città: un chiasso che sbigottisce. Pina resta immobile e ascolta suoni e rumori che si sovrappongono, si fondono e si ripetono sempre uguali ma ogni volta nuovi; come assente guarda il tumultuoso muoversi della grande città. D’improvviso, come una luce che si frantuma in mille colori in un caleidoscopio, distingue immagini e suoni; ogni rumore si scinde quasi per incanto dagli altri e di ognuno ne riconosce la provenienza. Vede un tram sferragliare che scampanella e fa infuriare un carrettiere che distribuisce improperi al cavallo imbizzarrito e al veicolo causa di quell’eccesso; distingue l’abbaiare di cani al guinzaglio che s’affrontano a distanza trattenuti dai proprietari; una mamma allarmata che richiama a gran voce il figlioletto che le corre avanti; un ortolano che poco distante tiene la briglia del suo mulo e ripete a chi ancora non conosce: “Pina, Augusto”.
“Eccolo, … Govanni, Giovanni! Siamo noi; arriviamo” e gli s’avvicinano.
I convenevoli sono semplici come la gente che li conclude e, accertato che uno è il Giovanni inviato dalla zia e i due i nipoti attesi, tutti e tre salgono sul carro e se ne vanno. L’incontro con la zia suora avviene nel modo più semplice e naturale e senza proferire parola; le due si guardano intensamente, s’avvicinano l’una all’altra e s’abbracciano forte forte, a lungo. Quando si scostano Pina dice: “Lui è mio marito Augusto”.
La zia gli da uno schiaffetto sulla guancia e gli dice: “Hai l’aria di un bravo ragazzo! Trattamela bene, con amore”.
Si gira e decisa aggiunge: “Seguitemi!”, e li conduce alla loro camera.
Torino non è più capitale ma resta pur sempre una bellissima e grande città dove le cose da vedere sono tante e gli sposini non si sottraggono al gravoso compito di visitarla. Così, di buon mattino, lasciano la foresteria e sul carro dell’ortolano che ha consegnato le verdure alla suora cuciniera attraversano il centro città e si fanno lasciare vicino ai Sassi, alla stazione della ferrovia che sale alla Basilica di Superga. Comprano i biglietti e prendono posto in carrozza; poco dopo l’addetto avvia il motore e si sale aggrappati ai denti della cremagliera. Il tratto da percorrere è breve ma emozionante e mentre il trenino s’inerpica il panorama della città s’amplia; dalla cima, la si vede nel suo splendore, cinta Po, quasi fosse una fascia nobiliare. Lasciano la funivia, percorrono una breve salita sino al grande piazzale della Basilica. E’ presto e sono gli unici a salire la grande scalinata . Nel pronao incontrano un uomo dai modi inconsueti che li apostrofa: “Scommetto che siete sposi novelli! Da dove venite?”.
Augusto un poco intimorito da tanta confidenza ma ritenendo che forse nelle grandi città si fa così dice che si sono in viaggio di nozze, che vengono dal Paese, vicino a Novara, e che stanno ospiti dalla zia, Suor Maria Celeste, al che lo strano tipo riprende: “Ah! Novara! Alla Bicocca mio padre ha combattuto con Carlo Alberto”.
Dopo questa confidenza la sposina racconta di due suoi antenati, caduti alla Bicocca uno accanto all’altro. Questa rivelazione induce lo strano tipo a considerarli amici per la pelle, si qualifica come custode di tutto quello che sta li sopra e li conduce ad una visita accurata di tutto il complesso a partire dalla Cappella della Madonna di Superga; poi giù nel sotterraneo alle tombe dei Savoia; facendo uno strappo alla regola li accompagna a dare una sbirciatina agli appartamenti reali. Al momento dei saluti la loro guida raccomanda di salire a trovarlo ogni volta che torneranno a Torino ma Augusto replica: “Chissà quando sarà perché io e la mia Pina dopodomani lasceremo Torino e l’Italia per andare lavorare in un Hotel della Svizzera Tedesca”.
Soddisfatti della singolare esperienza lasciano il nuovo amico, scendono in città e dopo aver sbagliato strada per due volte, giungono al convento. Dopo cena zia Susanna li trattiene a parlare di tante cose prima del riposo. Quella notte, un poco perché molto stanchi ed un poco perché intimoriti dall’austerità del luogo e dalla vita verginale delle monache, Pina e Augusto non si cercano e dormono.
Quando la campana li sveglia s’è appena fatto giorno; in fretta, si lavano si vestono, fanno colazione e sono pronti per la seconda giornata torinese. Decidono di arrivare sino a dove li porteranno le loro gambe senza carretti ne tramwai perché molto meno complicato e più conveniente. Poiché troppo distante rinunciano alla visita del Borgo Medievale in riva al Po che il fattore aveva tanto raccomandato ché lui v’era stato quando fu mandato a Torino. Disatteso tale consiglio le mete sono il duomo dedicato a San Giovanni, La Sacra Sindone, gli scavi romani, la Porta con la statua di Augusto (non quello della Pina) e Piazza del Castello dove ve n’erano due: un Palazzo per il Re e uno per la Madama; il caffè dei portici dove è loro servita la rinomata cioccolata che sarebbe veramente stato un peccato non assaggiare. Pina, donna intelligente e sensibile, non è indifferente alle tante belle cose che ha potuto vedere a Torino e si rende conto che di bello non v’è solo la Vallata e la natura che la riveste ma anche tante belle opere dell’uomo, degne di essere viste ricordate e raccontate all’occorrenza come ha fatto il Fattore. Il rammarico di non aver potuto vedere il Borgo Medievale resta ma pazienza: lo ha sentito descrivere così tante volte che è quasi come se l’avesse visto davvero! Hanno camminato molto e sono stanchi; al solito, dopo cena si fermano un poco a parlare con la zia e decidono che l’indomani sarebbero rimasti da lei. Poi si coricano e bisbigliano tutto quanto è stato in questi giorni, sottovoce, molto vicini per sentire meglio i racconti, ancora più vicini si trovano, si accarezzano e si conoscono come si fa quando si è un corpo e un’anima sola; nemmeno la prima notte colma di paure e di rispetto, nel letto improvvisato al Paese v’è stata un’esperienza intima così intensa e profonda!
Al risveglio sanno di essere molto più uniti e si sentono sicuri di non volersi mai più separare. Decidono di aiutare le suore sino all’ora di partire quando abbracciata zia Susanna se ne vanno alla volta di quel paesino vicino a Lucerna dove lavoreranno nell’albergo di un Italiano.