Merville Ferrari.
Raggiunta la pensione ha potuto dedicarsi alla scrittura di racconti e poesie con rinnovato impegno. Dal 2010, anno in cui ottenne la Menzione speciale della giuria per la poesia, ha partecipato a tutti i Concorsi 50&Più. Anche un suo racconto fu segnalato con Menzione speciale della giuria per la prosa. In questi anni ha partecipato a molti altri concorsi letterari nazionali ed internazionali ottenendo molte soddisfazioni. Vive a Galliate (No).
In casa di Alberto si festeggia il compleanno della piccola Speranza. La torta è lì, con le sue belle candeline splendenti che aspettano il soffio di Speranza mentre tutti la spronano a soffiare forte, forte e “ffuuuww”, le fiammelle lasciano il posto a colonnine di fumo acre, piuttosto sgradevole che rammenta come il tempo può logorare le speranze e dissolverle in un futuro colmo di eventi, alcuni lieti e altri difficili da sopportare, fastidiosi come il fumo che può giusto significare questi ultimi anni trascorsi tra mille difficoltà comunque, infine, tutte superate.
La festa giunge al culmine e poi si esaurisce.
La bimba e il babbo sono soli e lui chiede alla sua piccina se la festa le è piaciuta.
“Si papi, molto!”, risponde Speranza e continua, “mi chiamano Principessina perché io sono una vera principessa?! Vero? Ho sentito la nonna dire che quando io sono nata la mamma aveva una “corona vera”!”.
“Piccina mia”, replica il babbo, “tu sei una vera principessa per me che ti voglio un mare di bene, perché sei una bimba buona, meravigliosa e mi ricordi com’era la tua mamma.
Devi sapere che quando tu sei nata, il mondo era funestato da una brutta malattia che aveva stravolto la vita di molti e procurato la morte di tante persone. Tutto questo era stato causato da una “cosa piccola, piccola”, invisibile anche al microscopio, chiamata “corona virus”: questa fu la “corona” della tua mamma e la fece morire”.
Speranza con un velo di delusione: “Allora io non ho mai avuto una corona!”.
Il padre riprende: “No! Per fortuna tu non hai mai avuto quella “corona”. Appena nata, per prudenza, tu sei stata allontanata dalla mamma, convalescente per una grave polmonite che purtroppo le aveva lasciato una terribile debolezza dalla quale non si poté mai più riprendere; solo l’amore per te le aveva permesso di vivere in modo che tu nascesti e… poi, dopo un poco, se ne andò.
Senza di lei, io e la nonna lottammo per farti crescere. Eccome se lottammo; come mamma, pure tu eri molto debole anche perché eri stata privata del suo latte. Dopo diversi tentativi abbiamo trovato la pappa adatta e sei rifiorita come i narcisi che ti feci veder questa primavera quando, sbucati dalla terra fredda, si sono lanciati verso il cielo; hanno poi chinato il capo appesantito dal bocciolo, come se stessero pregando per avere un poco di caldo e, ai primi tepori, ecco, esplodere la fioritura.
Il virus si moltiplicava a spese delle persone che ne venivano a contatto. Non ci fu verso: nessuno lo voleva ma lui ti si appiccicava addosso; si annidava dappertutto perciò, nel dubbio di aver toccato dove era, non si dovevano passare le mani sul viso perché se fosse entrato nella bocca, nel naso o negli occhi si sarebbe moltiplicato quasi all’infinito e avrebbe causato quella brutta polmonite, mortale in molti casi.
Per non essere contagiati furono stabiliti i comportamenti da seguire. Accadde così che siamo rimasti prigionieri nelle nostre case a lungo. La tv ripeteva di continuo: “Per evitare il contagio, restate a casa! Uscite soltanto in caso di estrema necessità”. Le precauzioni messe in atto, alcune in ritardo, non avevano evitato l’inarrestabile diffondersi della malattia. Moltissimi sono stati gli ammalati e i più gravi erano portati in ospedali dove tutto era stato studiato per combattere corona virus; dottori e infermieri avevano avuto dotazioni protettive: abiti da sala operatoria, mascherine speciali che coprivano naso e bocca e occhiali, in modo che non passasse nemmeno un filo d’aria. Tutte le persone autorizzate a uscire da casa per il lavoro, la spesa o impegni veramente urgenti indossavano le mascherine…”.
“Allora era come a carnevale”, interrompe la bimba.
“Un carnevale”, continua il babbo, “che invece di divertire e far ridere aveva procurato dolore, lutti e lacrime. I malati continuavano ad aumentare e i posti per curarli presto non furono sufficienti. Per far fronte alla situazione ogni ospedale aveva sospeso la normale attività e si era limitato a prestare solo cure veramente indispensabili e tutto il resto era stato dedicato a contrastare la pandemia … “.
“Pan di mia?”
All’errore il babbo precisa scandendo: “P a n d e m i a, si dice quando una malattia si diffonde con molta, troppa rapidità e il rischio di ammalarsi è molto alto; nella fase acuta si contano più morti che guariti. In questa situazione ben presto i ricoveri erano cresciuti a migliaia ogni giorno; in alcune Regioni non si sapeva più dove sistemarli. Edifici destinati ad altro erano stati trasformati e attrezzati in centri, dove ospitare e curare i contagiati più gravi. La mamma finì in uno di questi e fu sottoposta a terapia intensiva…”.
“ Tira … pinde… ten … tiva?”, balbetta dubbiosa Speranza.
“Terapia intensiva! E’ una cura molto speciale che purtroppo fu anche detentiva perché era come se i ricoverati fossero stati rinchiusi in prigioni dove nessuno poteva andarli a trovare! I più fortunati, all’inizio veramente pochi, guarivano; i più morivano in solitudine, desolati e senza un volto familiare accanto; più precisamente senza nemmeno un volto perché, per quanto amorose fossero state le cure prestate, le persone che li assistevano erano coperte da capo a piedi per non ammalarsi a loro volta; purtroppo anche così protetti molti medici e infermieri erano morti nel compiere la propria missione.
Le salme (stupore sul viso di Principessina), cioè i morti, erano portati via dai militari; spesso ai parenti non erano nemmeno rese le ceneri di chi, uscito di casa per guarire… mai più vi aveva fatto ritorno. La mamma era guarita ma le conseguenze del male non le lasciarono scampo. Tuttavia lei non volle andarsene prima che tu fossi venuta al mondo”.
“Allora”, con un velo di tristezza, “la mamma è morta per colpa mia?”.
“No! Al contrario l’attesa di Principessina le diede la forza di vivere, ancora per un poco, serena, anzi, felice di continuare a resistere alle conseguenze del male che l’aveva troppo provata e la stava conducendo a una fine inevitabile; era solita ripetere: “Non voglio andarmene via subito!”. Alla fine corona virus fu sconfitto! La gente non si ammalava più ma le conseguenze della pandemia …”.
“P a n d e m i a”, ripete Speranza, sicura.
“…erano state disastrose; non si era potuto lavorare per troppo tempo e le persone erano rimaste senza soldi; erano state messe in atto delle previdenze che presto finirono. Pure noi ci eravamo trovati in grave difficoltà. Infatti, io non mi ero ammalato ma essendo stato vicino alla mamma ero ritenuto possibile portatore di contagio e non mi era possibile tenere aperto il negozio. La nonna, all’inizio, si era data da fare per sostituirmi ma l’impresa fu superiore alle sue forze e vi rinunciò.
Nel tempo che il negozio era stato chiuso, la gente aveva provveduto agli acquisti o servendosi nei supermercati o facendosi portare il necessario a casa. Giustamente io non avevo potuto svolgere questo servizio perché, a causa dei contatti avuti con la mamma, vi era il sospetto che avrei potuto contagiare intere famiglie a casa loro. Senza altre entrate, anche noi siamo vissuti d’assistenza pubblica: nel frattempo tu sei nata e dopo poco tempo la mamma se ne andò, per sempre!
Per il dolore io l’avrei seguita volentieri! Ma non potevo cedere: avevo da crescere te.
Quando il contagio non fu più un pericolo, decidemmo che la nonna avrebbe tenuto aperto il negozio; per quel che c’era da fare sarebbe bastata lei sola e avrebbe avuto anche tempo per occuparsi di te. Da parte mia, io mi ero adattato a qualsiasi lavoro, regolare e no; ognuno non durava mai più di tre settimane, massimo quattro. Con molti sacrifici compravano le tue pappe che presto rifiutasti per dedicarti con entusiasmo a pastasciutta, bistecchine e a tutto il resto.
Tu crescevi bene e al tuo primo compleanno decidemmo che la nonna avrebbe avuto cura di te mentre io mi sarei di nuovo occupato del negozio.
Non so dire se per fortuna, per abilità o per quale altro misterioso intervento, fatto sta, che il negozio aveva ripreso a dare sufficienti guadagni. Molti clienti mi ricordavano che mamma, prima di ammalarsi, diceva di aspettare una Principessina e mi chiedevano di te con questo nome.
La prima parola che hai detto è stata “princ … essina!” e non mi stupii per nulla.
Ora, signorina, mi chiedi se sei una vera principessina in virtù della “corona” che tu non ha mai avuto e che ha portato via la tua mamma.
Ebbene si! Lo sei perché la più autentica corona che ha indossato la mamma fu composta d’amore e di sacrificio estremo. Perché tua nonna ha continuato a portarla in sua vece. Perché per il fatto di averti qui… con me, …ora… io sono il “re” più felice che ci possa essere sulla terra e perciò… tu… sei… la mia… Principessina!”.
Speranza abbraccia forte, forte il suo papi e sospira: “Si! Io sono la tua Principessina!”.