Liviana Ferdeghini.
Laureata in Lingue e Letterature Straniere Moderne, ha prestato servizio come insegnante di tedesco presso un Istituto di Istruzione Superiore, collaborando per anni con il Dirigente Scolastico. Lasciato il servizio, si dedica ad attività culturali su base volontaria e coltiva la passione della scrittura. Partecipa al concorso 50&Più per la terza volta. Vive alla Spezia.
All’improvviso si svegliò, le membra contratte, il cuore in tumulto nel petto, la sensazione nettissima di aver pronunciato ad alta voce quelle parole che ancora gli urgevano sulle labbra: “Sono qui!”. Il groviglio di lenzuola madide di sudore, la luce che filtrava prepotente fra i tendaggi scuri della finestra lo riportarono alla realtà. Era ancora presto nonostante il chiarore. Ma il caldo era già soffocante, un altro giorno infuocato dal sole si annunciava. Con un sospiro si lasciò andare pesantemente sul cuscino e nel far questo urtò la ragazza che dormiva seminuda accanto a lui. Con voce impastata di sonno lei protestò: “Perché non dormi? E’ prestissimo…”. “Lo so”, rispose, “ma fa già troppo caldo”. Lei aprì un occhio e guardandolo di sottecchi gli disse: “E ti lamenti del caldo? Da quando in qua? Togliti quell’inutile lenzuolo e vedrai che starai meglio”.
Non fiatò: temeva di dover ripetere le stesse cose già dette mille volte e ora non ne aveva alcuna voglia. Non voleva discutere su una sciocchezza, anche se tante volte proprio per simili stupidaggini avevano questionato a lungo. Poi però, specialmente all’inizio della loro storia, avevano fatto pace e lei aveva gettato via il lenzuolo, che davvero non serviva più.
Oggi era diverso; fu sollevato vedendo che lei si era rimessa a dormire.
Guardò un attimo quel corpo giovane e scattante, ne avvertì il profumo aspro che lei usava in abbondanza e che alle sue narici si mescolava con l’odore di selvatico che da lei emanava, ma non sentì dentro di sé alcun palpito. Cercò di recuperare l’atmosfera del sogno che l’aveva svegliato.
Erano sensazioni confuse, ma su tutte si stagliava nitida quella voce, che veniva dal passato, che pronunciava il suo nome, che lo chiamava con tono vagamente interrogativo, come se fosse entrata in casa in quel momento e volesse sincerarsi che lui ci fosse, che fosse lì ad aspettarla.
Un attimo e il sogno si era interrotto. Proprio quando lui avrebbe voluto risponderle: “Sono qui! Eccomi!”. Il caldo adesso lo opprimeva, quasi gli paralizzava le gambe. Un senso di impotenza gli dilagò nel petto e gli fece salire le lacrime agli occhi. Non ricordava di aver pianto da quando era morto suo padre. Si impose di reagire. Che cosa erano quelle ubbie? Possibile che l’età si facesse sentire di colpo con tutto il suo peso? Non voleva cedere alla malinconia.
Di sicuro erano i postumi della mezza sbornia della sera prima. Per il suo compleanno era stata fatta una festa più scatenata e chiassosa del solito.
C’era tutto il vicinato, tutti che bevevano, che ballavano, una bolgia. In un lampo avevano fatto fuori i piatti ricercati che lui aveva preparato con tanta cura e si erano buttati sui cibi precotti. Poi alcol, tanto alcol, pareva l’unico modo di divertirsi. Anche lui si era adeguato all’usanza, ma ormai era chiaro che quelle feste non gli piacevano, le sopportava solo per non contrariare Patricia, che invece in quelle occasioni si sprecava e amava esibire il suo status di moglie di un europeo, che le garantiva anche un certo benessere.
Ma ora bando alle tristezze, c’era il sole. Si sarebbe alzato e sarebbe andato alla spiaggia, che di prima mattina era proprio il paradiso che tutti immaginavano. Si alzò, si spostò in cucina e prese a riempire di caffè la sua moka. Aveva appena finito quell’operazione che squillò il telefono. Mentre si avvicinava al cellulare avvertì tutta l’angoscia di un presagio. Era sua figlia.
“Elisa! Come mai a quest’ora?”.
“Volevo informarti che la mamma è morta”, la voce che si incrinava sulle ultime parole, poi silenzio. In quel silenzio le sue domande, la sua voce che suonava inutile al suo stesso orecchio: “Come è successo? Quando? Quando c’è il funerale?”.
Fu risposto solo all’ultima domanda. “Il funerale non c’è, solo una benedizione, che si farà fra due ore”. Poi dopo una pausa: “E’ stata lei che non ha voluto che ti informassimo prima”.
“Ma quando è successo? Perché?”.
“Come perché? Era malata, lo sai bene. Avrai saputo cosa sta succedendo qui da noi. La mamma… l’hanno portata in ospedale una settimana fa e non l’ho più vista…”.
Lui non ebbe neppure più il tempo di dire una parola che già la comunicazione era chiusa.
E adesso che faccio? Si prese la testa fra le mani e le lacrime gli uscirono copiose dagli occhi.
“Chi era quello scocciatore?”, non aveva sentito Patricia entrare in cucina, a piedi nudi come al solito. Lui non rispose, alzò il viso e alla vista delle lacrime lei si limitò a rivolgergli un laconico “Beh?”.
“Era mia figlia”, disse.
“Ah…”, fu l’unico commento che lei fece.
“Mia moglie è morta”.
“Poverina!”, disse lei “ma lo sapevamo che era malata…” .
“Sì, lo sapevamo… “, ripeté lui e poi quasi parlando da solo riprese: “E ora che faccio?”.
Lei intervenne: “Come che fai? Non vorrai andare là? E’ da folli anche solo pensarlo. E comunque arriveresti in ritardo per il funerale”.
“Il funerale non ci sarà, ma mia figlia è sola ad affrontare tutto questo…”.
“Non è più una bambina, ha un compagno e tanti amici”.
Lui la fulminò con lo sguardo e le recriminazioni si interruppero subito.
In silenzio lei si imburrò una fetta di pane poi mentre la addentava decisa, disse: “Se credi potremmo andare là un po’ prima quest’estate, quando ci assicureranno che non c’è pericolo di contagio. Così potrai occuparti di tutte le questioni burocratiche, della casa e così via”.
“La casa è l’ultimo dei miei pensieri in questo momento”, la interruppe lui con tono aspro.
Lei si allontanò brontolando offesa.
Per la seconda volta in quella mattinata si trovava ad essere sollevato dall’assenza di lei.
“E ora che faccio? Devo andare”. Presa questa risoluzione, si sentì meglio.
Poi si mise subito in movimento per partire al più presto. Patricia lo guardava scettica e disapprovava. Riuscì a prenotare un volo per l’Europa per la mattina seguente. Avrebbe viaggiato tutto il giorno e sarebbe arrivato a Parigi in serata. Poi da lì avrebbe dovuto organizzarsi da solo, considerato che i voli per l’Italia erano stati tutti annullati e i collegamenti ferroviari erano incerti. I preparativi per la partenza lo tennero impegnato diverse ore in uno stato quasi febbrile. Patricia gli girò attorno con aria imbronciata tutto il giorno, ma la sua risolutezza l’aveva spiazzata e non osò dire nulla.
Solo quando fu sull’aereo riuscì a distendersi e a far riemergere i pensieri su quello che era successo. Chiuse gli occhi e subito riaffiorò il sogno della notte precedente, improvvisamente chiaro. Era la sua voce che lo chiamava, quella voce che non avrebbe più sentito e che negli ultimi tempi gli era mancata tanto. Aveva nostalgia del suo modo di parlare chiaro e preciso. Da qualche tempo trovava snervante quel continuo intercalare “¿ Como se dice?”.
Ora non sapeva come avrebbe fatto per arrivare fino a casa, non sapeva che cosa avrebbe trovato, ma con certezza, sapeva che doveva tornare. Che non poteva più stare lontano. Improvvisamente sentiva che lui apparteneva a quella gente e che voleva condividerne il destino.