Natalia Fagioli.
Insegnante di materie letterarie ora in pensione, si è avvicinata alla scrittura soprattutto dopo aver smesso la sua professione. Partecipa al Concorso 50&Più per la quarta volta; nel 2019 ha ricevuto la Menzione speciale della Giuria per la prosa. Vive a Cesena (Fc).
Eravamo arrivati in albergo la sera del venerdì.
L’idea era stata quella di passare il week-end coi bambini a Serravalle dove un collega, bravo pittore e abile incisore, trascorreva le vacanze estive e tutti i fine settimana nella casa natale. Beppe ci aveva invitato a raggiungerlo, proponendosi anche come guida per una camminata nel bosco fino al crinale, insieme ai bambini: i suoi due maschi e Mara e Gilberto, i nostri figli, che in quattro non facevano vent’anni. A incuriosirci era anche il forno a legna che il collega aveva ricavato nella roccia viva della sua cucina e dove era solito cuocere il pane ed enormi pizze napoletane, ma a farci decidere definitivamente era stata la notizia che a Serravalle aveva allestito anche uno studio, con un torchio che noi subito immaginammo giganteggiare fra pennelli, cavalletti, barattoli di acido, colori, lastre di rame e bulini sparsi un po’ ovunque.
Lo studio dunque, per noi una vera e propria stanza delle meraviglie, solleticava in piccoli e grandi un’altra curiosità: quella di vedere Beppe al lavoro.
Così, avevamo prenotato nell’unico albergo aperto in dicembre, l’Albergo Italia, a poco più di cinquanta metri da casa sua.
Arrivati nel tardo pomeriggio e sistemate le valige, cenammo e, dopo esserci imbacuccati ben bene, uscimmo dal portone di legno d’acero per incamminarci a piedi verso casa del collega.
Al mattino era caduta un po’ di neve, “solo una scarpa” ci avevano detto all’Italia, e il sole l’aveva in gran parte sciolta, lasciandone solo un velo sottile che tuttavia, già alle otto e trenta di sera, si presentava come una pericolosa lastra di vetro.
“L’ha inciudè” (ha inchiodato, il freddo ha gelato tutto quanto), constatò subito mio marito traducendo dal tosco-romagnolo l’esclamazione con la quale la proprietaria dell’Italia ci aveva salutato all’uscita: “I gli’è tuut diacciàto!”, prima di rassicurarci: “Niente paura! Aggiungerò una coperta e metterò lo scaldaletto”.
Fuori c’era una luna da rimanere a bocca aperta a guardarla, ma il freddo era pungente e, al primo impatto, toglieva il respiro.
La strada scricchiolava sotto i nostri scarponi impermeabili e il respiro tra le sciarpe si addensava in piccole nuvolette di fumo che salivano verso l’alto.
Alta, alla nostra destra, sopra un monte appuntito e tagliente come una lama, la luce della luna allagava i solchi di quei costoloni di montagna che ci circondavano come un anfiteatro rugoso, lasciando in ombra solo piccoli ritagli misteriosi, anfratti curiosi, scampoli di buio.
I cinquanta metri che ci separavano dalla casa del collega erano in salita e verso valle delimitati da una fila di piante che non riuscivo ad identificare con sicurezza nella notte, ma tutte giganti, con tronchi enormi e chiome che promettevano di offrire in estate un’ombrosa frescura. In quella stagione, i rami completamente spogli si stagliavano contro il cielo e lasciavano intravedere la strada a tornanti che dal basso portava al paese.
Contro la luce della luna, formavano un chiaroscuro di rara bellezza. Tutto era immobile. Sembrava di essere immersi in una magia senza tempo. Il silenzio era totale, così assoluto da invitare a romperlo per riafferrare la realtà.
E infatti Gilberto, con le mani di lato alla bocca, si lasciò andare ad un urlo che rimbalzò, rotolò, si fece eco e Mara lo imitò di rimando, mentre io non trovai di meglio che fingere di rimproverarli: “Ma così svegliate i lupi!”.
Il freddo ci invitava ad affrettarci, il ghiaccio invece a procedere con prudenza.
Quando ci venne aperto, apprezzammo come non mai l’aria calda che subito ci investì dalla cucina.
Il forno era già stato acceso dal pomeriggio in vista della pizza che i padroni di casa volevano offrirci, sull’enorme cucina economica, in un tegame di coccio, si stava cuocendo lentamente il coniglio in salmì per l’indomani e, quando la signora aprì lo sportello per controllare, l’odore delle mele cotte invase l’intera cucina.
I bambini, prima stesi a pancia in giù sul pavimento in un’orgia di pennelli e colori, si divertirono a imbrattare i fogli messi loro a disposizione, poi vollero sperimentare quanta forza occorre per muovere un torchio e chiesero una dimostrazione pratica dell’uso di certi strani “cucchiai e spatole”, infine andarono a scatenarsi nella stanza che serviva da soggiorno e da pranzo dove la fiamma scoppiettante di un camino di pietra li invitava a buttare altra legna per vedere “le stelline” andar su per la cappa.
Ammirate le ultime incisioni di Beppe, un paesaggio montano fatto di campi recintati da siepi sotto quattro casupole che si sostenevano vicendevolmente in un abbraccio fraterno e, tenerissimo, il viso incorniciato dai bei riccioli del figlio più piccolo, gli uomini si trattennero ancora un po’ nello studio, finché non ci si ritrovò di nuovo tutti in cucina, dove non si stava larghi, ma si stava benissimo.
E i discorsi e gli interessi continuarono a incrociarsi, sovrapporsi, scontrarsi.
Più tardi, dopo aver sgusciato e assaporato un bel po’ di caldarroste, si cominciò tutti insieme a fare il programma per l’indomani.
“S’va prima per l’Eremo, s’gira a mancina, s’prende il sentiero in salita. In un’ora scarsa, s’è al crinale”.
“O te, tu t’scordi che noi s’ha de’ ragazzi! L’è piccola la scittina! (la bimba è troppo piccola)”.
“ Ma…”.
“S’va a mancina, et dico… e anche s’l’è freddo, s’dev portà acqua da bere e un po’ ‘d panini”.
“A set pronti, ragazzi? O ragazzi, ‘n do’ siete?”
“E non bercià , ch’i l n’è sordi!(E non urlare, che non sono sordi!)”
“Beppe, mi piacerebbe arrivare al Pian della Moia”.
“Al Pian dla Moia!? Ah grullo! Ma te tu l’sa ‘ndo l’è? (Ma lo sai dov’è?). T’ha sbagliat vallata! E poi ‘n né mica estate! Cos tu va a fa’ al Pian dla Moia?”.
“M’hanno detto che di lassù si vede un panorama bellissimo”.
“Ma l’è lontano!’t dico. Enn’è qui ! ‘S pole andacci ‘n estate, s’artornate!”.
“E in macchina fino a…”.
“Mamma! L’ha ripreso a nevicà!”, annunciò Fede, il figlio più grande di Beppe.
“L’ha ‘mbiancato!”, aggiunse Franz il più piccolo.
Beppe si affacciò sull’uscio e guardò fuori: “L’è cambiato ‘l tempo! L’è più caldo ‘d dianzi!”.
Altra legna nella stufa, altra legna nel forno, una fascina di stecchi nel camino, per vedere andar su le faville.
E quando la bocca del forno veniva scoperchiata, appariva come un antro di fuoco.
“Mamma, guarda! Il vulcano!…”.
“O te! Ormai le pizze son pronte!”.
E allora fu l’odore del pomodoro che si scioglieva e si amalgamava con la mozzarella a profumare la casa.
Tutti a tavola.
Si rideva e si scherzava, ma quando Beppe rientrò di spalle spingendo col sedere la porta perché stringeva un’altra bracciata di legna da ardere, una ventata di freddo si fece largo insieme a una raffica di fiocchi di neve, a riequilibrare la temperatura della stanza.
“U bufa! U bufa! (Fa cattivo tempo, nevica!) Te tu’n ci va al Pian della Moia, domani! ‘l Pian d’la Moia! Ma ‘s potrà…?”.
“Ma finite piuttosto codesto brulé! N do’ l’è (Dov’è)‘sta mappa?”.
“Per costì…l’è ‘na mulattiera c’an finìs più. S’cessa id nevicà, ‘s’pole andà per la Forra degli Spiriti. L’è più corta. Al tocco, s’è di nuovo a casa”.
“Qua c’è anche la Buca delle Fate!”.
“Sì, ecco…le fate…No, i spiriti no…”.
“La scittina a vol le fate!”.
“O te, as l’avete le ciaspe? Un par de ciaspe! Le ciaspole!”
“Mamma, cosa sono le zappole?”
“Mai sentito parlare di ciaspole”.
Eravamo tutti curiosi e i bambini più grandi vollero sapere degli Spiriti che abitavano alla Forra e gli adulti cominciarono a raccontare le storie con cui i loro padri li addormentavano, e prima ancora i loro nonni avevano addormentato i padri e così, di padre in figlio, storie e filastrocche si perdettero e si ritrovarono nella notte dei tempi.
Intanto fuori si era fatto un silenzio assoluto, proprio quel silenzio che permette alla neve di cadere senza farsi sentire e di ammucchiarsi ben bene e diventare alta, molto alta.
Quando decidemmo che era ora di tornare in albergo, la neve caduta superava già in altezza i bambini più piccoli e non sembrava ancora stanca di venire giù.
“Restate un altro po’! Tanto ormai l’è tardi e ‘d neve c’n’è già troppa”.
“Ci date alloggio?”.
E mentre i più piccoli ciondolavano il capo tra le braccia di un genitore, i grandi ripresero a raccontare di quell’anno che… e di quel giorno che… e di quella volta…
Era passata l’una di notte quando ci si risvegliò tutti dal torpore e si decise che era l’ora di tornare, di tentar l’avventura! Solo una cinquantina di metri, in fondo! E ormai non nevicava più, constatammo una volta sull’uscio.
Fuori, non vedevo più la luna alta nel cielo, ma non ce n’era bisogno.
Il biancore diffuso dava l’impressione di stare in pieno giorno, anche se stentai a riconoscere il luogo che avevo percorso all’andata. Tutto mi sembrava nuovo, un posto che vedevo per la prima volta.
Solo quando riconobbi la fila dei grossi tronchi e il loro ombrello di trine, mi rasserenai. Quei tronchi neri coperti come di una soffice glassa mi avrebbero indicato la via e riportato a casa, come una stella cometa.
Ci facemmo prestare le pale, mio marito la più grande, io quella più piccola e ci aprimmo la strada fino all’albergo.
Lo spettacolo era di nuovo dei più belli e non solo da vedere, ma da assaporare e da vivere fino in fondo, da sentire con le orecchie e col naso e la pelle del viso.
E i bambini lo intuirono senza bisogno di spiegazioni, perché mentre noi spalavamo e ci aprivamo un passaggio, loro si divertivano a camminar fuori rotta, ad affondare le gambe nel morbido, e a sdrucciolare sulla neve fresca e ancora intatta.