Pasqualino Fadda. Pensionato della pubblica amministrazione. Partecipa al Concorso 50&Più da alcuni anni; nel 2008 e 2010 ha ricevuto la Menzione speciale della giuria per la prosa e nel 2011 ha vinto la Farfalla d’oro sempre per la prosa. Vive a Oristano.
Oggi 22 marzo 2020 prima domenica di primavera, è una domenica strana, io vivo in campagna in un piccolo podere. Fino a pochi giorni or sono la strada era molto trafficata ma oggi a causa del corona virus, una infezione virale abbattutosi sul mondo intero, per evitare il diffondersi del contagio da uomo a uomo è stato emanato un decreto legge che impone di restare ognuno nella propria abitazione e di uscire solo per le esigenze strettamente necessarie.
La strada è completamente deserta, di quando in quando passa solo qualche mezzo pesante e qualche pattuglia delle forze Polizia. Non si vedono più i gitanti che nelle giornate festive affollavano le sponde dei piccoli stagni e attrezzati di macchine fotografiche e videocamere riprendevano le innumerevoli colonie di fenicotteri, germani reali, folaghe, garzette e molte altre specie di uccelli acquatici.
Da casa mia distinguo ancora adesso il loro strepitare nei limpidi specchi d’acqua e pare che festeggino l’arrivo della primavera, indifferenti del dramma che si sta abbattendo su gaia.
Accendo la tele e non vedo che servizi giornalistici che parlano di questo tema e riprendono città deserte che sembrano abbandonate.
Amaramente constato che sono venute meno le certezze di un mondo progredito e moderno che si cullava in quella sicurezza scaturita dal grado di progresso che la tecnologia e la scienza aveva raggiunto.
Fino ad oggi si viveva a nella convinzione che i limiti di conoscenza erano tali che il genere umano aveva superato quella linea di demarcazione con i reconditi segreti della natura.
Siamo precipitati in una realtà molto aspra, non siamo padroni della natura e forse proprio il progresso umano e le attività produttive prive di nessuna etica ma tese solo al profitto hanno determinato molte nefandezze provocando disastri ambientali e sovvertendo quello che il creato ci ha messo a disposizione e che come una grande madre prosperosa e feconda ci dava il suo florido petto senza chiedere in cambio nulla, solo rispetto.
Considerazione che i popoli antichi pur nella limitata conoscenza avevano, per un senso ecologico connaturale e dalla madre terra prendevano solo quello che era necessario per il sostentamento e anche tutte le attività erano improntate all’utilizzo dei beni esistenti in natura ma senza mai sovvertire il rapporto tra il bisogno e l’abuso.
Sono nato in un paesino della Sardegna e sono cresciuto negli anni del primo dopoguerra, l’economia derivante da una agricoltura ancora misera e arcaica era scandita dall’alternarsi delle stagioni e a volte dava i suoi frutti ricchi ed abbondanti a volte scarsi e insufficienti. Quel popolo di contadini e allevatori pur sacrificando le loro vite con fatiche immani avevano sperimentato nel susseguirsi dei secoli che la natura toglieva ma mai dimenticava i suoi figli ed al momento opportuno donava, per cui confidavano nella sua generosità e la rispettavano comunque.
Fino agli anni della mia infanzia e della mia adolescenza ho vissuto tra quella moltitudine modesta e coscienziosa, si! La coscienza verso la natura, verso il prossimo era la ricchezza smisurata di quel popolo ed io che con loro mi onoro di aver vissuto e sacrificato mi sono portato nelle vita gli insegnamenti, e nel mio piccolo posso narrare le attenzioni che i nostri padri e i nostri “mannos ”ponevano in ogni loro azione. Sembreranno ai più, fatti insignificanti ma io ritengo che la coscienza verso il mondo naturale, animale e vegetale sia il fulcro della nostra esistenza e parte dalle piccole attenzioni.
In un nostro podere c’erano molti alberi da frutto, per me era un posto incantato specie d’estate ci andavo sempre con mio nonno, un giorno di fine giugno siamo andati di buon mattino, su un albero di fichi ho notato un frutto bellissimo, era color marrone grande ed invitante, il primo per quell’anno, presi un gancio di legno abbassai il ramo e lo colsi; tutto entusiasta andai da nonno e glielo mostrai. Nonno con tono serio e riflessivo mi disse: “non mangiarlo, quel fico non è tuo! Il primo frutto è dell’albero e della terra”, lo prese e con una zappetta che aveva sempre con se lo sotterrò vicino alle radici spiegandomi che la terra ha la precedenza su di noi. Da quel giorno nella mia vita non ho più mangiato il primo frutto dei nostri alberi.
Una volta era d’autunno, i nostri splendidi e miti autunni mediterranei, andammo con nonno, mio padre e i miei zii a tagliare la legna grossa per il grande camino che era l’unica fonte di riscaldamento della nostra casa, facevamo anche le fascine di legna fine per il forno del pane; stavamo sboscando un terreno non di nostra proprietà, autorizzati dal padrone; estirpavamo cespugli di olivastro e di perastri selvatici e legavamo la legna a fascine , vedevo che nonno e babbo tagliavano le piantine contorte del cespuglio lasciando una sola pianta al centro, la più bella, la più dritta che per me era la più facile da legare nella fascina, con un falcetto la potava con cura, quasi con amore come accarezzandola per non danneggiarla. Meravigliato chiesi a nonno il perché non la tagliasse se era la più bella e la più facile da trasportare. Nonno che aveva una risposta a tutte le mie domande, questa volta però mi disse di chiedere a mio padre che era li accanto, babbo benché molto giovane a quei tempi ma aveva già acquisito la sensibilità degli avi e mi spiegò che quella piantina essendo la più sana e la più bella aveva più possibilità un giorno di diventare un albero maestoso.
Anche il rapporto con gli animali era improntato al rispetto e benché si uccidessero per l’alimentazione umana ci si comportava con considerazione e l’uccisione era quasi un rito ancestrale e religioso , preceduta da segni di riconoscenza per il sacrificio di questi esseri indifesi .
Io avevo un asinello sardo piccolo e brioso che mi aveva regalato proprio nonno per la mia promozione, un giorno andammo a falciare il grano in un terreno lontano dal paese e dovevamo falciare fino a sera, il pane ed il companatico per il pranzo lo portavamo in una bisaccia; arrivati sul posto nonno mi disse di appenderla all’albero della quercia sotto la quale ci riparavamo all’ombra durante il pasto. Mi dimenticai di appenderla e arrivata l’ora del pranzo, l’amara sorpresa: l’asinello si era mangiato tutto il pane del nostro pranzo, mi arrabbiai al punto che presi un bastone e volevo dargliele di santa ragione. Nonno mi fermò dicendomi che la colpa non era dell’asinello ma la mia perché lui segue il suo istinto e se trova da mangiare lo considera suo. Per quel giorno facemmo digiuno fino a sera.
Ricordo con molta nostalgia quegli anni trascorsi a contatto con la natura, nei boschi dove in primavera gli aspri perastri secolari ammantavano di bianco le vallate.
La non vigevano le regole dell’uomo ma comandavano le leggi della natura in un equilibrio naturale e la fauna ricca di animali di ogni razza vivevano come in un eden primordiale. In estate i gruccioni che in lingua sarda chiamavamo “abiolu” essendo le api il loro pasto naturale, venivano a stormi e ne mangiavano a sazietà eppure questi insetti vitali restavano sempre numerosi e in primavera ed in estate facevano puntualmente la loro preziosa e insostituibile opera di impollinatori e preservavano anche parte della loro prodotto, la più dolce a noi umani.
Di questi animali stupendi che una volta popolavano i nostri monti e le nostre campagne, ormai sono rimasti in un numero esiguo.
L’uso dei pesticidi oltre a decimare le api hanno fatto scomparire del tutto molte altre varietà di insetti tra cui le lucciole, esserini tra i più affascinanti del creato che tanto mi avevano meravigliato da bambino che credevo fossero figli delle stelle e depositari dei segreti della luce. Da moltissimi anni non li ho più visti volteggiare nei crepuscoli tiepidi di giugno.
Riguardo ai rapporti interpersonali l’amarezza è troppa nel mio cuore se penso che siamo precipitati in breve tempo in un medio evo dalla fine incerta come ai tempi delle grandi calamità storiche come la peste e la lebbra, quando le persone colpite da questi flagelli venivano isolati nelle grotte e nelle caverne naturali. Oggi per arginare la piaga del corona virus non possiamo nemmeno incontrare i nostri figli se non sono relegati con noi nelle nostre case, possiamo solo vederli attraverso video chiamate. Dobbiamo evitare di baciare ed abbracciare i nostri nipoti, i fratelli, gli amici, impediti perfino di stringerci la mano, atto naturale e spontaneo nel nostro mondo da sempre. Evito comunque di farlo sperando che in breve tutto ritorni come prima.
Mi vengono i brividi se penso alle consuetudini che vigevano tra quella gente semplice dei miei tempi giovanili e che erano fuori da tutti i canoni di igiene, eppure nessuno si preoccupava e si continuava a mettere in atto comportamenti ritenuti normali, fino a ieri incredibili e disdegnati, eppure non sono mai scoppiate epidemie o contagi pericolosi.
Quando si andava nelle campagne per adempiere ai vari lavori, sapendo che nella zona le fonti naturali erano disseminate ovunque non si portava l’acqua potabile da casa comprata nei centri commerciali e contenuta nelle borse frigo, si andava a bere nelle sorgenti ove di norma si utilizzava un barattolo di latta che qualcuno aveva messo sul posto. Gli avventori senza nessuna preoccupazione attingevano e bevevano senza problemi.
Anche il vino, durante il pranzo si sorbiva direttamente dalla “zucca”, passandosela da uno all’altro.
L’avvento dell’economia industriale è andata di pari passo con l’avidità che è cresciuta a dismisura e per la brama di accumulare ricchezza sono stati commessi eclatanti crimini economici ed ecologici producendo prodotti chimici ed in plastica, bottiglie, bicchieri, piatti usa e getta e utensili di ogni genere ed abbiamo inquinato e insozzato non solo la terra ma perfino gli oceani.
Ma la natura non si può ingannare per sempre e quando si rompe l’equilibrio del suo quadro congenito, scarta le specie che non supportano l’intero sistema e questo lo fa da milioni di anni.
Il genere umano con la sua intelligenza, ma sopratutto con la sua presunzione è convinto che il suo successo non abbia fine e si sente il padrone assoluto.
C’è una grande baraonda nel mondo riguardo il corona virus, e se fosse questa l’ultima prova che la natura ci da per farci prendere coscienza? E’ il momento di svegliarsi adesso, non possiamo vivere la nostra vita in uno stato disconnesso dalla nostra coscienza. Non possiamo lasciare solo agli scienziati l’onere della nostra salvezza se ancora si persiste in comportamenti irresponsabili come quello di abbandonare in piena epidemia, miliardi di mascherine che vanno ad alimentare la micro-plastica nei fondali marini.
Se vogliamo creare un mondo più giusto per le future generazioni, l’atteggiamento ed il rispetto verso il nostro habitat deve cambiare adesso.