Fabio Cavalli è attore, regista, autore, scenografo, produttore, docente universitario, fondatore del Teatro Libero di Rebibbia. Già intervistato nel numero di ottobre della rivista 50&Più, racconta a Spazio 50 il suo impegno nelle carceri: com’è entrato in contatto con il mondo carcerario, perché il rischio di recidiva nel nostro Paese è così alto e come può aiutare il teatro.
Nato a Genova nel 1958, Fabio Cavalli è una figura poliedrica: attore, regista, autore, scenografo, produttore, docente universitario e fondatore del Teatro Libero di Rebibbia. Ha scritto e diretto decine di spettacoli teatrali e numerosi documentari come “Italia ’60 – Attori sulle barricate!”, in collaborazione con Rai Teche e Istituto LUCE, che narra l’epopea delle lotte sindacali per i diritti dei lavoratori dello spettacolo.
Con i fratelli Taviani ha realizzato “Cesare deve morire” (coautore della sceneggiatura, regista e scenografo della parte teatrale) che ha vinto l’Orso d’oro alla Berlinale, un David di Donatello e un Nastro d’Argento. Nel 2017, con Mibact e SIAE ha realizzato “Rebibbia 24”, mentre in collaborazione con la Corte Costituzionale ha realizzato per Rai Cinema e Clipper Media “Viaggio in Italia – la Corte Costituzionale nelle Carceri” in cui racconta l’incontro straordinario fra sette giudici della Consulta e i detenuti di altrettante carceri. Ed è proprio “Viaggio in Italia”, trasmesso su Rai Uno nel giugno 2019, ad essere presentato come Evento Speciale alla Mostra del Cinema di Venezia e sottotitolato in una decina di lingue.
Fabio Cavalli, vent’anni fa è entrato per la prima volta nel reparto di massima sicurezza di Rebibbia. Ci racconta di quell’esperienza?
Sono entrato dapprima come volontario, ovviamente. In fondo, anche senza aver subito una condanna, un assaggio di galera me lo sono fatto. Tutti dovremmo farlo: entrare là dentro ti chiarisce un po’ la visione delle cose e di te stesso. Poi il Direttore, che conosceva il mio lavoro di regista, mi ha invitato a un incontro con i detenuti ed è nata l’idea del teatro.
Era un pomeriggio d’autunno cupo, c’era una lampada sguarnita che penzolava dal soffitto e il fumo delle sigarette era denso. Là ho assistito ad una prova di Napoli milionaria che i detenuti stessi avevano improvvisato. Era la scena della falsa veglia funebre attorno al letto di Gennaro Iovine. Il protagonista si finge morto. Accanto a lui, la famiglia si dispera. Tutto viene architettato per sviare l’indagine del Commissario che è entrato a perquisire l’appartamento. Intanto dal cielo cadono gli ordigni del disastroso bombardamento del 1943. Io ero stato catapultato direttamente dentro quella stanza sbarrata fra condannati di mafia e di camorra.
Pensai che l’arte teatrale è una pallida imitazione della potenza della vita vissuta. Lo dice Aristotele. Il quale non aveva potuto prevedere che, dopo due millenni, una banda di criminali si sarebbe impossessata della scena, rivoluzionando e dando concretezza alla sua idea di “catarsi”: la purificazione dell’anima attraverso l’arte della rappresentazione.
Dal suo osservatorio, cosa ci può dire della vita in carcere?
Frequentando un carcere, maturi la coscienza che quello è un inferno. Tanti detenuti preferiscono suicidarsi che vivere così. Trent’anni in un reparto di massima sicurezza è una pena simile alla morte. Poi, di fronte a tanta sofferenza dei carcerati, si para l’immagine delle vittime dei loro delitti. Allora immagini il dolore delle famiglie, dei figli degli uccisi nel corso di azioni criminali; dei morti per la droga che loro spacciano a tonnellate. Il problema è che le vittime sono episodiche. Un crimine qui, oggi. Il prossimo lontano da qui, fra un mese. Il successivo è ancora altrove e in un altro tempo. La sofferenza delle vittime è dispersa, perché il male individuale è nomade. Non promana contemporaneamente da un unico luogo, come da una centrale termica del dolore: i carnefici sono incarcerati tutti insieme a patire, nello stesso luogo, nello stesso tempo e per un tempo collettivamente infinito. È spaventoso.
In Italia, il rischio di recidiva per chi torna in libertà è pari al 70%. Secondo lei da cosa dipende e come si potrebbe modificare questa tendenza?
Partiamo dal fatto che il 70% dei detenuti è praticamente analfabeta. In ogni reparto c’è il detenuto “scrivano”, nominato dal Direttore fra coloro che sanno leggere e scrivere. È lì da duecento anni, dai tempi di Silvio Pellico. Aiuta i compagni di cella nella corrispondenza coi familiari, o col Giudice di Sorveglianza. Con la penna, da soli non sarebbero capaci (italiani o stranieri è uguale). La recidiva al 70% dimostra che il bisogno primario dei detenuti non è quello di vivere liberi. Anche dopo aver toccato con mano la galera bruciante, sfidano il rischio di trascorrere là dentro anni ed anni, in una coazione a ripetere interminabile che chiamiamo il “loop del danno”. La spiegazione di questo loop è troppo complicata. Mi ci arrovello da tanto tempo.
Si parla molto di recupero dei detenuti mediante il lavoro. Ma il lavoro in carcere è poco, saltuario, umilissimo. Come si fa a recuperarli offrendo loro quello stesso umilissimo lavoro che rifiutarono da ragazzi preferendo l’arricchimento facile del crimine? La formazione professionale quasi non esiste. C’è la scuola che a qualcosa serve, soprattutto a chi ha una pena da scontare molto lunga. Per chi si appassiona allo studio c’è l’Università, che in galera è quasi un miracolo della civiltà. Ma Rebibbia è un esempio virtuoso. Non è la regola.
Poi c’è il potere catartico dell’Arte. Su 2000 casi che ho seguito in 20 anni, il tasso di recidiva dei detenuti-attori non arriva al 15%. Sarà un caso. Sarà fortuna. Sarà un gioco di prestigio.
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