Da oltre vent’anni il regista teatrale accompagna i detenuti alla scoperta del teatro in un lavoro costante di sensibilità e riconoscimento dell’altro che arricchisce e ribalta alcune prospettive
Le Idi di marzo e la cospirazione ai danni di Giulio Cesare sono un pezzo di storia tramandato fino a noi e raccontato, tra gli altri, anche da Shakespeare. È questa stessa tragedia ad essere messa in scena nel 2012 dai detenuti di Rebibbia diretti dal regista teatrale Fabio Cavalli e immortalata nella pellicola Cesare deve morire diretto da Paolo e Vittorio Taviani che in quell’anno ha vinto l’Orso d’Oro al Festival di Berlino e ricevuto otto candidature ai David di Donatello, vincendone cinque, tra cui quelli per miglior film e miglior regista. Una scelta forte che mette in luce i parallelismi con la vita dentro al carcere. Abbiamo parlato di questo e di molto altro con Fabio Cavalli, che da vent’anni accompagna i detenuti alla scoperta del teatro.
Da dove nasce Cesare deve morire?
Con la Compagnia del Teatro Libero di Rebibbia stavamo provando i Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello. Vennero i Taviani e mi convinsero che per un’operazione cinematografica rivoluzionaria occorreva un titolo assolutamente internazionale. Il “Giulio Cesare” era perfetto. Di fatto un cast di soli uomini: la migliore soluzione, in carcere. Tutta la Compagnia fu d’accordo.
C’è un parallelismo tra il “Giulio Cesare” e la vita dei detenuti?
Non si può immaginare che un’opera realizzata con i detenuti non venga investita dal loro vissuto. Spesso, con “Shakespeare in carcere”, la biografia del personaggio e quella dell’interprete si possono sovrapporre. È come se fossero accomunati da un unico tragico destino. Il mondo della Roma antica messo in scena da Shakespeare corrisponde abbastanza al racconto di Plutarco e Sallustio. In quel tempo, si contrapponevano sulla scena del potere i capi di clan familiari allargati, dotati di forze armate personali, foraggiate coi proventi delle guerre, delle razzie e delle vendette trasversali. Quando Cesare varcò il Rubicone a mano armata, ruppe un accordo fra clan. Nulla di strano, dunque, se in Cesare deve morire gli attori dell’antica tragedia si esprimono come in un bassofondo urbano contemporaneo.
Lei è entrato in contatto con il mondo carcerario ben prima di questa esperienza. Ci racconta come?
Vent’anni fa entravo per la prima volta nel Reparto di massima sicurezza del carcere di Rebibbia. Da volontario, ovviamente. Era il 2003 e il Direttore di Rebibbia, che conosceva il mio lavoro di regista, mi aveva invitato ad un incontro coi detenuti. Erano una ventina e, per interrompere la noia infinita delle giornate, cercavano un impegno, un traguardo da raggiungere. Pensavano di trovarlo nel teatro. Loro, che in un teatro non erano mai entrati. Conoscevano Eduardo De Filippo perché erano in maggioranza napoletani e avevano visto qualche vecchia commedia in Tv. Volevano portare in scena Napoli milionaria, forse il dramma più intenso del grande Eduardo. Non era facile. C’erano difficoltà giuridiche, organizzative, materiali, per non parlare di quelle artistiche. Comunque io accettai di dare una mano senza pensarci troppo su. Eravamo in una stanza di pochi metri quadri ed ero stato catapultato direttamente dentro quella stanza sbarrata fra condannati di mafia e di camorra. Non che avessi paura. Ma chi, nella vita, può immaginare di essere immerso in una simile irrealtà? Eduardo, Napoli, Rebibbia. Il mio racconto, ancora oggi, è confuso come il sentimento fortissimo di quella prima prova teatrale. Mi parve un capolavoro. In quell’incontro, non so dire se vidi più vita o più teatro.
Come cambiano le modalità di lavoro da “dentro” a “fuori” il carcere?
Il carcere è un luogo spaventoso e, per quanta scorza tu abbia, cambia il tuo modo di essere e di lavorare. Provare uno spettacolo per mesi e mesi assieme agli attori detenuti, coinvolge la sensibilità in modo totale e l’analisi del percorso teatrale rischia sempre di scivolare verso l’autoriflessione. Mi aiuta una metafora di Pirandello, quella che definisce i personaggi del suo teatro “maschere nude”. È quanto di più vicino all’idea che mi sono fatto di un uomo detenuto. A Rebibbia credo di aver conosciuto maschere nude e per poterle incontrare mi sono dovuto adeguare, provando a denudare la mia. È qualcosa che nel quotidiano, con il nostro prossimo, solitamente non si fa. Che non si sa nemmeno di poter fare. E che invece può cambiare la percezione di sé e del proprio rapporto col teatro, col cinema, col mondo.
Come si può far avvicinare i carcerati al teatro e che riscontro ottiene da parte loro?
A loro dico che, salendo sul palcoscenico, si esporranno al rischio estremo. Loro, che sempre hanno cercato di sfuggire tribunali e sentenze, andranno in cerca del “giudice naturale” dell’artista: il Pubblico (e io li seguo in questa sorte). In quasi tutti i racconti dei miei attori, il momento del debutto è il più emozionante di tutta la vita. Dietro le quinte, quando si apre il sipario, vivono lo sgomento assoluto. Solo un’organizzazione ferrea, uno spirito di gruppo formidabile, una solidarietà senza limiti, fanno sì che quello sgomento venga contenuto dentro una forma. Allora il terrore del palcoscenico può trasformarsi in un successo che dà senso a mesi e mesi di fatica. Dopo il primo debutto ci si prepara alla prossima sfida. Dovranno parlarne i compagni di cella (i non attori), gli agenti della Polizia penitenziaria, il direttore, i familiari. Dovrà parlarne la stampa. Si andrà a cercare il proprio nome sul pezzo pubblicato e se il critico avrà citato solo il compagno di scena, sarà la delusione. Esattamente come accade nel sistema dello spettacolo di fuori. Uscire dalle pagine della cronaca nera per entrare in quelle dello spettacolo è una trasformazione radicale della percezione di sé. La “setta dei carcerati” si è trasformata nella “setta dei teatranti”.
Da qualche anno all’interno del Rebibbia Festival si svolge “Il cabaret dei somari”. Ci racconta il progetto?
Ho girato alcuni film a Rebibbia negli ultimi anni. Una volta un produttore mi disse: «In questa scena si ride, meglio evitare, siamo in carcere…». Dopo qualche discussione, quella scena che faceva sorridere lo spettatore venne tagliata. In seguito, parlando del problema del tabù della risata con i miei detenuti-attori, decidemmo di rischiare il tutto per tutto: fare il Cabaret a Rebibbia. Diciamo che ci siamo presi una pausa dalla narrazione del dolore. Un’orchestra, canzoni, scene comiche. È andata bene: 1.500 spettatori, sempre tutto esaurito. E l’anno prossimo rilanciamo con Arlecchino servitore di due Padr(i)ni, ispirato a Carlo Goldoni. Ma prima, il 23 dicembre 2023, saremo al Teatro Argentina di Roma con uno spettacolo in trasferta da Rebibbia: La Formula di Grübler, scritto e diretto da Laura Andreini, presidente del Centro Studi “Enrico Maria Salerno” che cura i progetti in carcere.
È cambiato qualcosa dall’inizio delle sue attività nelle carceri ad oggi?
Vent’anni fa era impensabile l’idea di portare 25 attori-detenuti nel più importante teatro romano per una serata istituzionale ma anche popolare. Eppure, dopo il successo di Cesare deve morire, siamo riusciti a farlo. Poi è arrivato il Covid. Ora si ricomincia, e mi pare di vedere che le Istituzioni ci sostengono. La Polizia penitenziaria ci sostiene. Avanti così.
Per informazioni: Centro Studi “Enrico Maria Salerno” – www.enricomariasalerno.it
© Riproduzione riservata