L’integrazione e il rispetto della diversità sono da considerarsi un punto di forza per le aziende, proprio come l’appartenenza a generazioni differenti.
Essere soddisfatti del proprio lavoro, far crescere la propria impresa è anche una questione di diversità. Sempre più aziende oggi puntano sul Diversity&Inclusion (DW&I) Management, ovvero la gestione della diversità e dell’inclusione dei propri dipendenti, un approccio lungimirante alla crescita sostenibile. Ma cosa significa sostenere la diversità e l’inclusione al lavoro? «Significa conoscere e valorizzare ogni singolo individuo – spiega Valentina Dolciotti, consulente D&I e direttrice del magazine DiverCity – con le differenze di cui è portatore all’interno della propria organizzazione aziendale. E sicuramente vuol dire anche coinvolgere i dipendenti per generare idee innovative». Ma non solo, perché la diversità e l’inclusione si rivolgono anche all’esterno dell’azienda per «indirizzare la percezione che i clienti e gli stakeholder hanno del brand e attrarre quindi clienti e anche talenti». Con un impatto diretto sul fatturato dell’azienda. Non solo quando la diversità dipende dal genere, dall’orientamento sessuale, religioso, dalla provenienza geografica, dalla lingua, ma anche quando è generazionale.
La diversità legata all’età è spesso sottovalutata, mentre oggi è sempre più diffusa. Con l’allungamento dell’età pensionabile e con l’invecchiamento progressivo della popolazione, infatti, il mondo del lavoro italiano si trova a fare i conti con una realtà unica: l’incontro di almeno quattro diverse generazioni, ognuna con il proprio bagaglio di valori, idee, competenze, che le guida nei rapporti con i colleghi e con l’organizzazione aziendale. «Con un ricambio generazionale che potremmo definire “tradizionale” – chiarisce Laura Quintarelli, professional coach e autrice del volume Managing by generation -, normalmente in un’azienda si incontrano due generazioni: la generazione che detiene il know-how e il potere a livello manageriale, e la nuova generazione che prima o poi ne prenderà il posto. Oggi, invece, ci sono la generazione Baby Boomer degli over 55, soprattutto in ruoli di responsabilità, la Generazione X dei 50enni, i Millennial che hanno fra i 30 e i 40 anni e la Generazione Z degli under 30 che si sta affacciando ora nel mondo del lavoro». Inoltre, la tecnologia, dal 1990 in poi, ha creato una vera e propria cesura fra chi è nato prima, quindi Baby Boomer e Generazione X, e chi è arrivato dopo ed è considerato un digital native, come i Millennial più giovani e la Generazione Z. Per i nativi digitali, la tecnologia è talmente integrata nella vita quotidiana da influenzare valori e linguaggi, anche sul lavoro: «Se la fedeltà all’azienda è fra i valori principali di Baby Boomer e Generazione X – sottolinea Quintarelli -, nei Millennial dal 1990 in poi e nella Generazione Z predomina la fedeltà non all’azienda ma verso sé stessi e il proprio sviluppo a prescindere dall’organizzazione in cui questo avviene». Tutto ciò influisce sulle aspettative di carriera: se le generazioni senior sono rimaste ferme nel proprio ruolo anche per 10-15 anni, attendendo di acquisire nel tempo le competenze necessarie per il salto di carriera, «gli junior – evidenzia Quintarelli – già dopo circa 24 mesi cominciano a spingere per sapere cosa l’azienda ha in serbo per loro e quali sono i programmi di sviluppo», con l’idea che acquisiranno le competenze necessarie lungo la strada, correndo veloce come l’innovazione.
Come gestire e valorizzare questa diversità? «Creando nuovi modelli di interazione – suggerisce Dolciotti -, facendo lavorare persone senior e junior su uno stesso progetto e cercando di non focalizzarsi sugli stereotipi dominanti. Ad esempio, pensando che necessariamente le persone più giovani siano smart e super tecnologiche e quelle più anziane non lo siano o, viceversa, che soltanto l’esperienza senior sia utile per l’azienda mentre l’apporto di chi è neoassunto non possa servire». O ancora, che i capi siano necessariamente più anziani del proprio team, perché anche questo è uno stereotipo che non corrisponde alla realtà. Spazio ai team intergenerazionali ma anche ai programmi di mentoring e reverse mentoring: «progetti di scambio di conoscenze e competenze – spiega Quintarelli – fra diverse generazioni. Per fare un esempio, un 50enne trasferisce attraverso il mentoring ad un collega di una nuova generazione, magari fra i 25 e i 30 anni, il funzionamento delle dinamiche interne e le storie di successo come modello da seguire; in cambio viene aiutato con il reverse mentoring da una generazione digital native ad avere un approccio diverso alla tecnologia».
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